La canzone ha un taglio decisamente lisergico. Fin dalle prime battute si percepisce un’energia che porta altrove, che invita a rallentare e lasciarsi andare. Sembra una traccia pensata più per un ascolto interiore che per un contesto tradizionale. Una canzone da meditazione, o da sballo controllato, con un andamento che sembra fatto apposta per accompagnare un viaggio mentale. C’è qualcosa dello spirito degli anni ’70 che emerge in più passaggi. Alcune scelte sonore, l’impostazione della voce, certi effetti in sottofondo richiamano mondi già esplorati da band come i The Doors. Non è un’imitazione, ma si sente una certa affinità, una parentela, soprattutto nella libertà formale e nella ricerca di un’atmosfera sospesa. La parte finale strumentale è forse il momento più riuscito. Non solo chiude il brano con coerenza, ma crea anche un legame forte con chi ascolta. È come se a un certo punto le parole diventassero superflue e rimanesse solo il suono, libero di agire in modo più diretto. La scelta della lingua italiana è interessante, ma viene da chiedersi come potrebbe suonare questa canzone in inglese. Alcune immagini potrebbero forse risultare più immediate o universali. Non è una critica, solo una curiosità: certi brani, per costruzione e intenzione, sembrano quasi nati per un altro idioma. Nel complesso, è una canzone che sembra parlare a chi cerca qualcosa oltre la superficie. A chi non ha fretta. A chi ha voglia di farsi trasportare da una vibrazione lenta, ipnotica, con quel tocco sciamanico che trasforma un ascolto in un piccolo rito personale.