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GIULIANO DOTTORI

GIULIANO_DOTTORI
Giuliano Dottori
Giuliano Dottori è nato in Canada, a Montreal, ma vive da sempre a Milano. Chitarrista e produttore dal curriculum denso di collaborazioni, ha lavorato live e in studio con Thony, Alessandro Raina, FiloQ, Syria e altri ancora. Dal 2008 è nella formazione degli Amor Fou. Come cantautore ha esordito nel febbraio 2007 con l’album “Lucida”. Di seguito le sue 5 canzoni preferite…

Bon Iver – Re: Stacks

Personalmente reputo “For Emma” uno dei dischi più sconvolgenti degli ultimi vent’anni. In un certo senso è un disco che mi ha cambiato la vita. Mi sconvolge pensare che con quattro accordi strimpellati su una chitarra e una voce che ci canta sopra ci si possa emozionare ancora così tanto. Mi sconvolge restare ipnotizzato da una canzone di sei minuti come “Re: Stacks”, che chiude il disco, e ritrovarmi ad ascoltarla per decine di volte di seguito senza mai stancarmi. Mi sconvolge vedere che nelle clip su YouTube il pubblico è ipnotizzato come me, muto e immobile come quando si ascolta una confidenza da uno sconosciuto. «There’s a black crow – mi dice Bon Iver – sitting across from me / His wiry legs are crossed / He is dangling my keys, he even fakes a toss / Whatever could it be / That has brought me to this loss?». Lo dice a me, me lo sta sussurrando in un orecchio. Capite la differenza? Justin Vernon non è un imbonitore. In “Re: Stacks” non si sta crogiolando nelle sue miserie, nelle sue paure, nei suoi fallimenti. Me le sta raccontando come le racconterebbe a qualcuno conosciuto al bancone del bar. Non si sta beando della sua solitudine montanara, qui ha davvero la schiena schiacciata dal peso di mille cose che non hanno peso, come i ricordi, come le rovine che cerca di scrollarsi di dosso: «On your back with your racks as the stacks are your load
/ In the back and the racks and the stacks of your load
/ In the back with your racks and you’re un-stacking your load». Questo non è il suono di un uomo nuovo, dice alla fine. Come dire, i tuoi fallimenti te li porti dietro.


Radiohead – All I Need

Parlare di confini può sembrare semplice, quando sei dalla parte giusta così come quando sei dalla parte sbagliata. In un modo o nell’altro hai una visione privilegiata delle cose e il tuo sguardo può osservare, giudicare o abbassarsi all’occorrenza. Cosa succede invece quando sei esattamente sopra la linea di confine, quando ti trovi a metà del guado? Tutto è giusto, tutto è sbagliato. Non guardare giù, non voltarti, resta fermo. Sei un animale intrappolato nell’auto, sei solo un insetto che cerca di uscire dall’oscurità, una falena alla ricerca della sua lampadina, del suo piccolo alone di luce. Tutto è giusto, tutto è sbagliato. Thom Yorke, forse l’unico vero genio di questi anni stanchi e ripetitvi, giunge in “All I need” a un suo apice lirico e interpretativo. La canzone in sé è di una semplicità quasi imbarazzante, soprattutto se confrontata ad altre perle dei Radiohead, che non sono – si sa – un gruppo molto easy listening. Ma in “All I Need” c’è una tensione emotiva quasi insostenibile. È solo al minuto 3:12 infatti, quando Thom posa le mani sul pianoforte, che avviene l’attesa liberazione.


Counting Crows – Anna Begins

Una storia estiva, con una ragazza australiana conosciuta durante una vacanza in Grecia, viene narrata e sviscerata, diventando una sorta di racconto sulla capacità di autoconvincimento dell’uomo, sulla capacità di negare l’evidenza, sulla paura dell’amore: «And every word is nonsense but I understand and, Oh lord, I’m not ready for this sort of thing… Io non sono pronto per questo genere di cose. Ogni parola è priva di significato, ma la capisco. Ogni volta che starnutisce credo sia amore. Ma io non sono pronto per questo genere di cose». Ecco, in questi magnifici versi dell’ultimo ritornello sta tutta la canzone, traccia numero cinque dell’album di debutto della band, “August and everything after” del 1993. Mi viene la pelle d’oca anche oggi, dopo vent’anni e qualche migliaio di ascolti, quando verso la fine arrivano i backing vocals, che tradiscono la provenienza west-coast della band. Poi Anna comincia a scomparire, se ne va, ed io non sono pronto per questo genere di cose.


Arcade Fire – Suburban War

Personalmente sento sempre di più la mancanza di canzoni epiche, che ci parlino in toni altisonanti di quello che viviamo, della nostra società. Penso a prese di posizione nette, da urlare in faccia agli altri, a tutti i nemici, perché è inutile che ci prendiamo in giro, il mondo è pieno di nemici. Penso, per intenderci, a Bob Dylan o a Bruce Springsteen. Forse è stato questo mio bisogno a farmi ascoltare decine di volte di fila “Suburban war”, tratta dal penultimo disco degli Arcade Fire. Win Butler non è uno che si mette col petto in fuori, ma di certo non le manda a dire e tratteggia in questa bellissima ed epica ballata un quadro desolante e commovente, fatto di vecchi amici che sono cambiati, di appartenenze a tribù diverse, di città che crollano. «This town’s so strange / They built it to change / And while we’re sleeping all the streets, they rearrange». La voce è drammatica, il testo alterna immagini più personali ad altre generazionali, nel senso più profondo del termine. Una generazione smarrita e divisa. Win Butler, nato americano, nell’America profonda, ma canadese d’adozione, rivive in questo disco la sua infanzia delle periferie. E ci regala parole grandiose, le parole di cui avevo bisogno. «And my old friends, I can remember when / You cut your hair / We never saw you again / Now the cities we live in / Could be distant stars / And I search for you / In every passing car».


Damon Albarn – Hostiles

Infine una canzone recente, perché il buon Damon Albarn ha pubblicato, a mio avviso, il miglior disco del 2014: toccante, denso ad ogni livello, eppure cantabile e piacevole in ogni momento. Ho ascoltato questo disco per alcuni mesi, preso come sempre mi capita in un vortice da tossicodipendente. “Hostiles” in particolare è la canzone che più ho amato e che ancora non mi stanco di ascoltare, perfetta, eppure mai scontata.

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