IL BUCO Galder Gaztelu-Urrutia
“Il buco” (“El Hoyo”) di Galder Gaztelu-Urrutia è uno di quei film che ti catturano subito con un’idea tanto semplice quanto disturbante: un’enorme prigione verticale, un piatto unico che scende di livello in livello, e l’umanità che si sbrana per sopravvivere. L’originalità è dalla sua parte. Il riferimento a “Cube” di Vincenzo Natali è inevitabile: anche qui, uno spazio claustrofobico diventa teatro di riflessioni (più o meno esplicite) su potere, morale e disperazione.
Per almeno tre quarti del film, Gaztelu-Urrutia riesce a tenere la tensione alta. Il ritmo è ben dosato, le svolte narrative arrivano con tempismo, e soprattutto i due protagonisti iniziali — Iván Massagué (Goreng) e Zorion Eguileor (Trimagasi) — funzionano alla grande: uno idealista, l’altro cinico, entrambi incastrati in un meccanismo che li costringe a ridefinire la propria idea di umanità.
La regia è asciutta, quasi invisibile, e proprio per questo efficace: è la struttura narrativa stessa a condurre lo spettatore, con un minimalismo da allegoria distopica. Peccato che sul finale il film si complichi troppo, come se non sapesse bene come uscire dal suo stesso impianto. Il tono si fa sempre più “filosofico”, ma con scelte un po’ criptiche e affrettate. Sembra che il film, coerentemente con il suo titolo, finisca per infilarsi davvero in un buco, lasciando lo spettatore in sospeso non tanto per le domande sollevate, quanto per la sensazione che l’autore stesso non sapesse più che direzione prendere. Detto ciò, “Il buco” resta un esperimento riuscito nella sua parte centrale, con buone intuizioni e un impatto visivo e concettuale che non si dimentica in fretta. È un film che osa, anche a costo di perdersi un po’ strada facendo. E ancora oggi, a distanza di anni, non è poco.