
NINE INCH NAILS Parco della musica, Milano, Italia - 24 giugno 2025
Noi di Distopic.it non avevamo grandi aspettative. Dopo anni di silenzio discografico e un’attività dal vivo più sporadica che continuativa, temevamo che i Nine Inch Nails fossero diventati un reperto storico, con il meglio ormai alle spalle. Invece, il live del 24 giugno al Parco della Musica si è rivelato una delle loro esibizioni italiane più solide e sorprendenti. Merito di una scaletta ben costruita, con alcune scelte che hanno colpito anche i fan più attenti. Brani come “The Perfect Drug”, “Somewhat Damaged”, “The Big Come Down” e “I’m Afraid of Americans” (cover di Bowie) sono stati recuperati con cura e intensità, dopo anni ai margini dei tour.
Nessun nuovo album da promuovere: solo la voglia di misurarsi con il proprio repertorio, ed è stato un bene. Trent Reznor ha da poco compiuto sessant’anni, ma sul palco ha dimostrato una tenuta scenica invidiabile. La voce è ancora solida e tagliente, e la fisicità resta centrale nella performance. Gli anni spesi in studio – soprattutto nella scrittura di colonne sonore con Atticus Ross – non lo hanno arrugginito: al contrario, sembrano aver affinato la sua gestione dei vuoti, delle pause, del crescendo. Attorno a lui una band compatta ed efficace: Robin Finck, Alessandro Cortini, Ilan Rubin e lo stesso Atticus Ross. Tutti precisi, concentrati, affilati. Ross, in particolare, ha inciso in modo netto, con un lavoro discreto ma determinante.
Chi segue i NIN dagli esordi e ricorda formazioni diverse – ad esempio con Chris Vrenna alla batteria, oppure Charlie Clouser ai synth, oppure Danny Lohner al basso, ora coglie senza dubbio un’evoluzione: meno istinto, più controllo, meno caos, più definizione. L’impatto resta forte.
Le riprese trasmesse in diretta sui maxi-schermi – prevalentemente in bianco e nero, con un’estetica cruda, quasi industrial – hanno valorizzato la performance senza cercare effetti patinati: inquadrature essenziali, montaggio al servizio della musica. Un taglio visivo coerente con l’identità del gruppo, ruvido ma preciso. Anche il light design, altro punto fermo dei live di Reznor, è stato all’altezza: giochi di luci fredde, intermittenze stroboscopiche, silhouette in controluce. Ogni brano aveva un’identità visiva netta, coerente con l’umore del pezzo.
Il finale, con “Head Like a Hole” e “Hurt”, era prevedibile, ma ha funzionato. “Hurt”, in particolare, è sembrata ancora una volta la chiusura più adatta: trattenuta, dolente, diretta. Nessuna retorica, solo un pezzo che continua a parlare a più generazioni.
Un concerto che non ha cercato di sembrare giovane o moderno. Ma che ha dimostrato come si può invecchiare restando rilevanti. Con lucidità, rigore e una forza espressiva ancora pienamente viva.