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UMBERTO MARIA GIARDINI «La musica come terapia: chiudo gli occhi e tutto si rivela in un modo più gentile e autentico»

Nella settimana del Festival di Sanremo, non potevamo che intervistare chi la kermesse più famosa d’Italia l’ha vista da vicino, seppur diversi anni fa. Ma il Festival è anche un pretesto per parlare di Moltheni e soprattutto di “Protestantesima“, il nuovo disco di Umberto Maria Giardini, un lavoro che scava a ara un solco già tracciato coi capitoli precedenti, ma che qui trova un’elettricità nuova.

Partiamo dai tuoi inizi. Quando parli di Moltheni, citi spesso l’espressione “eutanasia artistica” per definirne la fine. Ti voglio però chiedere che emozioni provi quando ripensi al te di tanti anni fa e quindi anche a Moltheni.

«Non provo nulla di particolare. Ricordo un bel periodo non tanto per la carriera di Moltheni in sé, ma quanto per quegli anni in cui fare musica contava ancora qualcosa, anche se eri piccolo e non mainstream. Oggi tutto è finito, fondamentalmente c’è solo spazio per i nomi già consolidati, per i progetti rivolti ai teenager e comunque per la bassa qualità, spesso (se non sempre) confusa».

Viviamo in un Paese dove tutto ciò che fa spettacolo unito alla televisione e a quel puzzo di finto borghese che determinati personaggi emanano, causa fastidio

E’ la settimana di Sanremo. Anni fa in un’intervista dicesti questo parlando della tua esperienza al Festival: “”E’ stata una tappa importante. Ricordo le giornate intere sballottato a destra e a manca per le interviste, ma anche il tanto tempo speso in camera da solo””. Dopo tanti anni, i ricordi sono cambiati? E’ un palco che ti piacerebbe affrontare oggi? 

«No, i ricordi sono rimasti gli stessi, perché è quello che esattamente accadde. E’ un palco che forse oggi, anzi esattamente oggi, no, non affronterei più, poiché divenuto davvero stucchevole e controproducente. Più che mai i tempi sono cambiati anche per ciò che concerne questa manifestazione che come “Miss Italia” probabilmente oggi non ha più senso di esistere. Viviamo in un Paese dove tutto ciò che fa spettacolo unito alla televisione e a quel puzzo di finto borghese che determinati personaggi emanano, causa fastidio. Tutto è finto e nessuno riesce più a fingere credibilmente su ciò che non è ma che dovrebbe essere».

Rimpiangi l’euforia artistica degli Anni Novanta?

«Non sono una persona che ha rimpianti, ho molta nostalgia di come era la vita 30, 40 anni fa, perché l’ho vissuta intensamente e la ricordo bene, in tutto. Degli Anni Novanta ricordo più che altro che ancora si potevano fare cose belle, e se di valore riconosciute, oggi tutto questo fa parte del passato, un passato così vicino ma rimosso, seppellito e dimenticato, quindi lontanissimo».

Parliamo del nuovo disco. Prendo a caso uno dei commenti più ricorrenti sotto le varie recensioni di “Protestantesima”: “…UMG racconta l’amore come pochi altri sanno fare”. Quali altri artisti (italiani e\o stranieri) ti fa venire in mente questa affermazione?

«Italiani assolutamente nessuno, non sono io che racconto bene l’amore, sono la maggior parte dei musicisti italiani che non lo sanno fare, tutto qua. All’estero, al contrario dell’Italia, è stracolmo di gente capace».

Fammi dei nomi…

«E’ impossibile individuare chi è capace, sarebbero migliaia i nomi da citare, forse tra i più grandi c’è Morrissey, ma anche tantissimi songwriter semi sconosciuti del circuito indie folk».

La tua musica conserva quasi sempre un filo di malinconica malinconia. E’ legata al mood che cerchi per scrivere le canzoni oppure è una parte radicata nel tuo Essere?

«Non lo so, probabilmente sono io e/o il mio modo di scrivere, nulla più».

Anche in “Protestantesima”, così come nei lavori precedenti, sembri fare i conti col tuo vissuto familiare e sentimentale. In quest’ottica, in che misura la musica è anche terapia per te?

«La musica è un’ottima terapia nella mia vita, soprattutto in sala prove coi volumi alti. Quando suono con i miei collaboratori della produzione e chiudo gli occhi, tutto si annulla, tutto si placa e tutto si rivela in un modo più gentile e autentico».

La tua proposta musicale si basa su uno stile (il tuo, ovviamente) riconoscibilissimo ormai. Ma come si arriva ad averne uno? Ascoltando tanto i dischi degli altri? Viaggiando tanto? Suonando tanto dal vivo? Esercitandosi tanto? Tu riesci a definire la formula magica dello stile?

«Lo stile e la sua riconoscibilità dipendono a mio avviso da molti fattori, ma che si plasmano e determinano eventi diversi a seconda del soggetto che poi li interpreta nella propria arte. In altre parole è sempre diverso e proprio per questo la riconoscibilità è un elemento non sempre presente. Tutto e nulla serve, di sicuro però lavorare tanto aiuta, sia nell’attività live che in quella della scrittura. Anche osservare è utilissimo, si impara molto guardando ciò che ci piace».

Cosa ti ha tolto la musica?

«Mai nulla, mi ha solo regalato senza volere nulla in cambio».

Di quale dei tuoi lavori sei maggiormente orgoglioso e perché?

«Sono orgoglioso di ciò che farò domani, perché sarà sempre più professionale e di buon gusto. Quando non riuscirò più a farlo, smetterò».

In Italia andiamo per ondate. Ora è l’ora del rap. E’ un genere che ti piace, che in qualche misura stimola la tua curiosità?

«Giuro che non so di cosa parli, nel senso che vivo in un mondo parallelo ma distante sia dai “momenti” che dal rap».

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