MUSE Drones
Lo diciamo subito: “Drones” è un buon album, non è un lavoro eccezionale, ma ha comunque un livello medio-alto, con delle punte di assoluto valore che contribuiscono a rendere l’ultimo lavoro dei Muse non solo intelligente (per via delle tematiche affrontate) ma anche godibile. “Drones” è un classico disco rock, e quando si confrontano con questo genere senza filtri, Matthew Bellamy e soci finiscono per assomigliare un po’ ai primissimi Radiohead e un po’ agli U2. E ci verrebbe da aggiungere anche… Madonna, perché “Reapers” ha qualcosa che rimanda la testa a “Express Yourself” – fateci caso…
E a ben guardare, anche “Psycho” (soprattutto nella parte iniziale) sembra pescare dall’immaginario di “Personal Jesus” dei Depeche Mode.
«Questo album – spiega Matthew Bellamy – analizza il viaggio di un Essere umano, dalla sua perdita di speranza e dal senso di abbandono, all’indottrinamento dal sistema affinché si diventi droni umani, fino alla defezione terminale da parte degli oppressori. Per me un “drone” è uno psicopatico metaforico che permette comportamenti psicopatici senza possibilità di appello. Il mondo è dominato da droni che utilizzano droni per trasformarci tutti in droni».
Lo sviluppo del compact segue un filo che l’ascoltatore riesce a cogliere già al primissimo contatto. I brani migliori? Senza dubbio “Dead Inside” e poi le ultime tre canzoni del cd, che in una certa misura contribuiscono a mischiare le carte. In conclusione: in giro c’è di meglio, ma per essere il disco di una band che in carriera ha venduto 17 milioni di pezzi in tutto il mondo, non è malaccio.