A DIFFERENT MAN Aaron Schimberg

Dopo la visione di “A Different Man“, resta addosso un dubbio sottile, stimolante: e se fosse un piccolo capolavoro? Il film scritto e diretto da Aaron Schimberg è un’opera densissima, difficile da incasellare, che mescola influenze, toni e registri in modo spiazzante e coerente. C’è del Pirandello nell’idea di identità mobile e nello scarto tra essere e apparire, ma anche un gusto quasi cronenberghiano per la carne, per i corpi trasformati, un tocco hitchcockiano di mistero e tensione, e momenti quasi lynchiani, mentre alcune virate grottesche e visionarie richiamano il mondo di Burton. Un mosaico di suggestioni che sorprendentemente non toglie nulla all’originalità dell’opera, anzi: le dà spessore e stratificazione.
La storia di Edward – interpretato da Sebastian Stan, bravissimo nel bilanciare vulnerabilità e smarrimento – è quella di un uomo segnato da una grave malformazione facciale che, dopo una terapia radicale, cerca di rinascere sotto nuove spoglie. Ma la metamorfosi, fisica e sociale, apre voragini invece di chiuderle. Il nuovo Edward scopre che la vita che immaginava – amore, libertà, riconoscimento – resta sfuggente. Si ritrova a osservare un attore, Oswald (Adam Pearson), che lo impersona meglio di quanto lui stesso riesca a fare. L’identità gli sfugge di mano, la realtà comincia a sgretolarsi.
Schimberg gioca con i generi: favola nera, commedia grottesca, dramma identitario, romanticismo inquieto. Il tono cambia spesso, ma resta una coerenza interna, un ritmo ipnotico. La regia è solida, con guizzi da cinema d’essai: rallenta quando serve, lascia spazio al silenzio, costruisce inquadrature che pesano sulla psiche. Il finale è criptico e straniante: quel breve sguardo rivolto a una donna velata in sala evoca morte, solitudine, rimpianto. Nessuna spiegazione, solo sospensione. E il senso di spaesamento resta, a lungo.
La fotografia di Wyatt Garfield accentua l’ambiguità del racconto, alternando luci fredde e calde, iperrealismo ed evocazioni quasi oniriche. Le scenografie creano interni alienanti, claustrofobici, specchio visivo dello stato d’animo dei personaggi. Le musiche – composte da Umberto Smerilli – accompagnano con discrezione e costruiscono un tessuto sonoro che suggerisce piuttosto che affermare, restando sospeso tra tensione e malinconia.
Il cast? In stato di grazia: oltre a Stan, Adam Pearson emerge potente e autentico, portando sullo schermo una presenza magnetica e un vissuto reale che conferisce profondità al ruolo di Oswald. Renate Reinsve è intensa e ambigua nei panni di Ingrid, perfetta nell’equilibrare empatia e ambiguità morale.
“A Different Man” è un film che non si lascia chiudere in una sola recensione. È necessario metabolizzarlo, rivederlo, smontarlo pezzo per pezzo e poi ricostruirlo, come fa il suo protagonista. È un’esperienza affascinante e disturbante, che chiede allo spettatore di riflettere su cosa significhi essere davvero “diversi”. E se si possa mai diventare qualcun altro senza perdere ciò che siamo. Un film che parla di trasformazione e identità, ma soprattutto che ci costringe a guardare i segni sul nostro volto interiore. E forse, sotto quella nuova pelle, scoprire che il vero cambiamento non si può comprare.























