GIANCARLO ONORATO «Il mio modello di futuro rimane basato sull'impegno a rovesciare le storture»
La prima apparizione di “La Via” risale al 1996, contenuta nell’album di esordio di gianCarlo Onorato dal titolo “Il Velluto Interiore”. L’inedita versione che uscirà domani, il 25 novembre 2020, per Bootleg (edizioni Freecom Music), è una rivisitazione radicale del brano. Qui il link al pezzo in vendita esclusiva per 24 ore solo su www.btlg.it
Cosa rappresenta oggi per te questo brano?
«Ho un rapporto intimo con tutta la mia produzione, sia musicale sia di altro genere, siccome nel momento in cui lavoro ad un contenuto, ad una canzone o ad un album ad esempio, gran parte delle mie energie fisiche e psichiche vanno in quell’opera. Questo fa sì che da una parte un’opera pubblicata equivale ad un distillato, qualcosa che ho a lungo lavorato affinché possa essere un’offerta credibile rivolta a chi vorrà accoglierla. Ma non solo: questo mi permette anche di lasciar trascorrere talvolta anche anni prima di riascoltare un mio disco, una volta pubblicato. Il brano “la via” è più che mai una conferma di quella che è la mia posizione nella vita, oltreché nella produzione di canzoni, e la posizione è quella di chi sa che le parole e le musiche ci cambiano, agiscono su di noi più di quanto siamo disposti a credere. Sono soggetti di cui incontriamo lo sguardo, il fiato, il battito cardiaco. E questo cambia il corso delle nostre vite. Nel brano “la via”, lo speciale mescolamento tra alcuni potenti versi di Novalis e immagini scritte da me, ha creato uno scenario in cui il passato ed il presente del pensiero si fondono. Quando il brano mi è tornato dentro con urgenza, il risultato di tale mistura di parole e suoni che esse generano mi ha talmente affascinato e persino turbato, che non potevo non riprenderlo in mano e viverlo come vivo oggi ogni cosa: con senso di stupore per ogni interrogazione profonda».
“Il Velluto Interiore” usciva in un’epoca analogica, mentre oggi può essere ascoltato in streaming. Il gianCarlo di quei tempi immaginava dove sarebbe arrivato il mondo?
«Diversi anni prima di pubblicare “Il Velluto Interiore” io avevo scritto e inviato ad alcuni giornalisti, la bozza di un romanzo breve dal titolo “giorno automatico”. Era un romanzo “distopico” e metafisico: cioè la storia di una complicazione tecnologica per cui l’umanità intera andava a finire in un fermo-immagine. Una sorta di mistione tra narrativa e sceneggiatura per un cinema interiore. Dunque la risposta alla tua domanda è: confusamente, poeticamente sì, lo immaginavo, se per “immaginare” si intende proprio ciò che questo verbo significa, ovvero crearsi immagini interiori di ciò che potrebbe essere qualcosa che non abbiamo conosciuto, o non abbiamo ancora conosciuto fisicamente».
Come stai vivendo questa emergenza sanitaria?
«Rispondere a questa domanda è un po’ rispondere al senso che la vita ha preso per buona parte della società attuale. Giacché la vita, come la stiamo vivendo attualmente, non tanto da un punto di vista sanitario, bensì da un punto di vista politico in senso planetario, ci vede calati tutti al centro di una distorsione che non si era mai verificata con una tale potenza. Ma non sto parlando della minaccia di un virus. Personalmente non mi è possibile figurarmi la minaccia di un coronavirus come una valida ragione per attuare radicali modifiche degli ordinamenti democratici, gli stessi dei quali in Occidente siamo stati tutti fieri paladini sino a pochi mesi fa. Non lo prevede la nostra Costituzione, ad esempio, la si legga per verificarlo. Dunque la riflessione che si impone è assai più ampia di quella proposta da numeri ballerini dai quali facciamo dipendere le nostre vite. Mi pare più onesto riconoscere che il problema ha risvolti filosofici ben più profondi, e rimette in discussione molti degli assunti di base coi quali siamo stati educati. La riformulazione delle società che è in atto, ecco piuttosto il tema col quale un artista debba onestamente confrontarsi».
Di cosa è fatta la tua quotidianità?
«La mia quotidianità? Essendo quella di un creativo, è votata al lavoro su più fronti, di giorno la musica e la scrittura, passeggiate e la miglior qualità di alimentazione, sia fisica sia emotiva. Di notte la pittura, dato che ho ripreso a pieno ritmo anche questa forma di espressione. I collassi delle attività esterne imposti dalle chiusure favoriscono paradossalmente l’impegno assiduo sulla produzione di opere che normalmente richiedono gestazioni più lunghe. Tuttavia un artista vive di due momenti: la produzione prima e l’offerta al pubblico successivamente. Non ha senso un’arte negata alla diffusione. L’assenza di questa seconda dimensione è infatti una vera offesa, non solo al mestiere delle arti, ma all’intero sviluppo della società. Sono pochi coloro che si rendono conto, evidentemente, che una società senza pensiero condiviso, una società di separati, di videoconnessi, non dura e non produce futuro».
Finita l’emergenza ci troveremo in un mondo migliore?
«Mi figuro la storia come una bilancia: se siamo giunti sin qui ad esserci, è perché la percentuale di scelte positive ha prevalso, seppure di poco, sugli errori. Ma vorrei aggiungere una seconda metafora: siamo su una corriera che attraversa una zona impervia, costeggiando un profondo baratro. La corriera, guidata da un paio di oscuri individui, compie manovre che fanno a più riprese rischiare di farla precipitare nel burrone. Che fare? Restarsene seduti, magari sul fondo, e sperare che vada bene, oppure provare a partecipare ad una guida più responsabile del mezzo che ci ospita? Sapremmo bene di essere noi quelli che debbono fare in modo che il bilancio tra ciò che è bene fare e ciò che non lo è sia almeno pari. Sfortunatamente il numero di persone sveglie è gradualmente diminuito, essendo cresciuto il numero di coloro che si fanno invece anestetizzare da sistemi sempre più invasivi e per ciò divenuti più manovrabili. Visto che i politici di professione non danno segnali di buona conduzione per ragioni molto varie, io insisto sul ruolo politico dell’artista, e quando dico “politico” metto in campo un termine abusato nel suo significato parziale, mentre è dimenticato il suo significato più fondo, perché politico è qualunque atto di scelta fatta per sé e per gli altri. Visto dalla mia parte, il mondo non ha scelta: non può altro che migliorare, quindi sì, migliorerà. Mi rivolgo però al mare di passivi che preferiscono credere che certe visioni siano “utopistiche”, da sognatori: restarsene in fondo alla corriera e lasciare fare a chi guida in modo irresponsabile non è comunque ciò che garantirà a tutti di avere un futuro».
Oggi, a tuo avviso, in ambito artistico, qual è… la via da seguire? Oggi in che modo promuoveresti “Il Velluto Interiore”? Partecipando ad un talent?
«Io credo che stiamo incassando subendolo il succedersi rapido di molte trasformazioni, dunque ciascuno di noi si muove un po’ a tentoni, come in un nuovo improvviso buio nel quale riconoscere al tatto ciò che più possa attagliarsi al nostro mondo. Tanto per cominciare, parlando di concerti, non credo ad un mondo in cui si possa eliminare il contatto diretto tra l’artista e il fruitore. Quando io entro in contatto con l’opera egregia di qualcun altro, un concerto, un’esposizione, divengo immediatamente discente, uno che impara da ciò che altri hanno saputo offrire, e questo impatto psicofisico non può essere sostituito da alcuna mediazione tecnologica, a meno di voler ammettere l’avvento di una seconda categoria umana, successiva a quella sensibile fatta di carne e di emozione. La musica è un avvenimento fisico, come lo è l’amore, che comunque lo si viva genera fenomeni biochimici. Il concerto potrebbe tornare ad essere una forma essenziale e capillare di trasmissione del pensiero artistico, in dimensioni più contenute rispetto alle esagerazioni dei concerti per folle oceaniche, che del concerto conservano solo alcuni aspetti, ma superano quello fondamentale del contatto, dell’essere a portata di emissione di energia da parte di chi esegue. Inoltre io riformulerei infatti le regole del mercato che hanno finito per avvilire e relegare al fondo scala la miglior musica, in favore di ciò che fa invece cassetto, anche quando tali proposte sono imbarazzanti. Il mercato come lo abbiamo vissuto non è affatto democratico, come non lo è il denaro che lo muove. Ma una musica autentica può avere cittadinanza solo in contesti di reale rispetto dei diritti degli individui. Se l’era del disco fisico è terminata, non è terminata quella dell’invenzione di musica, quindi il concerto potrebbe tornare ad essere, come in origine era, il momento più alto di divulgazione delle musiche, mentre qualunque innovazione può avvicendarsi per la diffusione di esse. Quanto ai cosiddetti “talent”, non ho alcuna contezza del fenomeno, per quanto diversi colleghi con i quali ho avuto a che fare si siano trovati coinvolti in quel tipo di operazioni in qualità di soggetti “giudici”. In ogni caso, non mi sognerei lontanamente di portare un mio disco in un contesto in cui si fa una qualunque sorta di competizione. Le idee competono le une con le altre già di per sé per forza intrinseca, e non prenderei la scorciatoia delle competizioni per sopperire alla lacuna strutturale di una più onesta divulgazione attraverso i mezzi di informazione. Il miglior giudice è il pubblico, a patto che sia davvero raggiunto dalla proposta. Ciò a cui avremmo diritto è ad esempio a una televisione nazionale, statale, interessata all’emancipazione della gente, e che sappia fare circolazione del valore, quando esso è autentico. Il pubblico avrebbe diritto a conoscere chiunque valga la pena di essere conosciuto, e non solo chi trova il modo migliore di essere messo in luce. Dato che le cose così non stanno, il mio modello di futuro rimane basato sull’impegno a rovesciare le storture. Che è anche l’unico vero ruolo di un artista».