WRONGONYOU «Lì dove l’artista è libero, diventa reale, sincero»
Dopo “Il Diavolo non deve sapere” e “Non esisto più”, Wrongonyou ha pubblicato a ottobre il suo nuovo EP, “Radici“, distribuito da ADA Music Italy.
Il nuovo EP sembra un progetto… liberatorio, un ritorno al punto zero. Come stai vivendo questa fase della tua carriera sia a livello personale/umano, sia a livello artistico?
«È effettivamente un progetto. Un progetto che tutela la mia arte. Non stavo musicalmente così bene e a mio agio con me stesso da tempo, artisticamente parlando. A livello personale/umano ci sono tante sfumature che arricchiscono la mia vita. Ma soprattutto ti ritrovi a valutare cosa sia davvero importante, cosa durerà per sempre e cosa a un certo punto potrebbe finire o essere messo da parte».
L’autoproduzione è la strada che seguirai nel futuro? Ci racconti pregi e limiti del lavorare con una major?
«La libertà. Lì dove l’artista è libero, diventa reale, sincero. Non ci sono limiti, non ci sono paranoie. Certo è vero che una direzione artistica può dare una mano all’artista. Ma solo se si mette a servizio della musica, oltre l’immagine. Per fare questo lavoro servono soldi però, diciamocela tutta, bisogna trovare i giusti collaboratori».
L’unica colpa che mi do è forse essere stato pigro in alcuni momenti della mia carriera
Hai anche tu la sensazione di aver raccolto meno di quanto meritato in questi anni? Ti dai delle colpe? Pensi di non essere stato supportato o capito?
«Beh, questa è una domanda che stimola l’ego a darci dentro. Vengo considerato dalla critica una delle migliori voci in circolazione, quindi per scontato uno dovrebbe essere in cima, no? È un mondo strano, ma non mi do colpe. Faccio quello di cui ho bisogno e penso che la sincerità ripaga sempre. Continuerò così, sincero. Non penso di non essere stato capito, non so cosa succederebbe ad essere messo su un piedistallo vero e proprio. Lo scopriremo un giorno. L’unica colpa che mi do è forse essere stato pigro in alcuni momenti della mia carriera».
Oggi conta ancora fare della buona musica per raggiungere il largo pubblico, oppure marketing, social e gossip valgono più di una buona canzone e alcuni artisti ci investono perché poi paga?
«Entrambi secondo me. La buona musica ancora esiste. Sicuramente il business la vince il più delle volte e purtroppo inficia sul contenuto delle canzoni. Ma sono le regole del gioco, anche perché va così avanti da una vita. Bisogna stare alle regole del gioco se si vuole giocare. Penso che all’estero funzioni meglio, cioè un artista come Bon Iver, ripaga eccome, e comunque non stanno a mettergli brand addosso. La musica vincerà».
Sanremo è un palco che sogni ancora?
«Sì, certamente».