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ERALDO BERNOCCHI «Flint aveva un'energia mostruosa, un disprezzo per gli status e le mode»

Nessuno come lui oppure uno dei tanti? Iconico oppure sopravvalutato? Geniale oppure un poster buono per le masse? Personaggio sfuggevole, Keith Flint. Così sfuggevole che ci è sfuggito dalle mani in un attimo, e manco ce ne siamo accorti. Abbiamo però chiesto a Eraldo Bernocchi, produttore, musicista, alchimista del suono, di aiutarci a comprendere meglio chi è stato Keith Flint e cosa hanno rappresentato i Prodigy. Una chiacchierata senza compromessi, ma anche senza retorica.

Keith Flint non era un musicista, era un ballerino, i suoi testi erano “solo parole che suonano bene” – come diceva lui stesso – e non ha mai avuto particolare talento a scuola. Senza i Prodigy sarebbe finito a lavorare da McDonald’s – sempre parole sue. Allora perché abbiamo tutti la netta sensazione di aver perso una delle icone più rappresentative della scena elettronica degli Anni Novanta e non solo? Cosa ci ha trasmesso Keith Flint senza rendercene conto?

THE PRODIGY«Forse perché per una volta nella storia dell’elettronica c’era un frontman vero? Flint aveva un’energia mostruosa, un disprezzo per gli status e le mode. Era una sorta di Johnny Lyndon del breakbeat, passami il termine. E le parole che suonavano “bene” sono servite a un sacco di giovani per riconoscersi in una società sempre più piatta. In inglese una persona così si definisce “towering”, ecco perché ora che se n’è andato manca qualcosa di grosso. Una figura imponente anche sul palco. Il fatto che si sia tolto la vita rende tutto ancora più triste perché non ti aspetteresti mai che una forza della natura così possa commettere un gesto del genere, possa essere così “stanco” da decidere di chiudere, fa ancora più effetto. Il vuoto è più vuoto».

Dal tuo punto di vista, in che cosa sono stati innovativi i Prodigy a livello sonoro? Oppure la loro carta vincente è stata rimescolare almeno tre generi (elettronica, rock e punk) in un’epoca assuefatta da trip hop, grunge, brit pop e boy band?

«La seconda opzione, almeno per me. I Prodigy sono stati il punk degli Anni ’90, e anche in seguito band così forti si potevano trovare solo nel metal. Sono riusciti a mettere insieme una produzione che suonava in un modo enorme con dei pezzi perfetti, immediati, dei very anthems. Hanno piallato le masse, introdotto una forma di violenza sonora ai più, musica che per anni era sempre stata confinata ai clubs».

Ricordi la prima volta che li hai ascoltati e li hai mai visti dal vivo? 

«”Firestarter” è stato il primo pezzo che ho ascoltato, e li ho amati da subito. Era potentissimo, anche oggi spacca, ha mantenuto inalterata la sua freschezza nonostante siano passati 20 anni. Nonostante non fossi più un adolescente mi riconoscevo nel testo, sembrava scritto per me che sono un “firestarter” professionista. Presi l’album, non so quante volte l’abbia ascoltato. Ce l’ho sempre con me nel telefono. Purtroppo non li ho mai visti dal vivo. Avrei voluto quando hanno suonato qualche mese fa a Londra ma i biglietti sono volati in un secondo. Peccato sia tutto finito».

Keith Flint è stato senza dubbio un’icona. Quali sono le icone musicali di oggi che possono essere accomunate a un personaggio tanto potente dal punto di vista dell’immagine?

«Bella domanda. Ti direi Gaga, di qualche anno fa. Altri non ne vedo. Forse Nick Cave, ma per altri motivi. Perché ha coniugato parole e musica fino a diventare un’icona. Onestamente non mi viene in mente nessuno di così forte».

Qui la nostra galleria del concerto dei Prodigy a Treviso nel 2016

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