APPINO «Con questo album ho voluto ricordare a tutti che faccio un po' cosa cazzo mi pare»
Dai, iniziamo subito senza preamboli. Andrea Appino, sei felice?
«E’ un periodo di cambiamenti. Però partiamo dal presupposto che la felicità è una cosa bella, ma la sua ricerca è anche inutile perché è eterna, lunghissima, forse impossibile o forse no. Al limite posso inseguire lo star bene. Ecco, posso rispondere alla tua domanda dicendo che sto bene».
E’ da qualche anno che non bevi più…
«Non bevo più superalcolici, ma bevo molti… non superalcolici: vino e birra. Non sono completamente astemio. Anzi. Però diciamo che il distacco dai superalcolici mi ha permesso di stare alla larga da ciò che mi accadeva anni fa, ovvero scordarmi cosa facevo la sera prima, che era una cosa che non sopportavo proprio».
Ma è vera la storia che bevevi e ti sentivi Gesù?
«Sì, almeno un paio di volte mi è capitato. Ma c’è anche una spiegazione chimica: i superalcolici inseriscono nel sangue più alcol rispetto a vino e birra, quindi ti portano ad avere una sorta di ubriacatura molesta, e quel tipo di ubriacatura, non lo nego, mi dava grandi soddisfazioni, lo ammetto. Il lato brutto della medaglia, però, era che poi finiva sempre male, cioè con un giorno dopo sempre da dimenticare».
“Il disco precedente mi ha massacrato emotivamente”. Questo invece che disco è stato?
«Partiamo da “Il Testamento”. Sapevo che volevo fare un disco da solo, e dico “da solo” perché altrimenti avrei rischiato di far fare agli Zen Circus qualcosa che magari non volevano fare. Volevo fare una roba violenta, quindi diversissima dagli Zen, volevo fosse uno schiaffo e mentre facevo il disco mi sono ritrovato a fare anche analisi su me stesso senza volerlo e il facendole a cacchio di cane mi ha portato a tirar fuori anche delle robe che non mi hanno fatto stare benissimo».
Veniamo al “Grande Raccordo Animale”…
«Non pensavo a un secondo disco. Però per vari motivi mi sono trovato a viaggiare e una volta giunto in alcuni luoghi particolari, mi è venuta voglia di scrivere un nuovo album solista».
Scriverlo intendi musica e parole?
«Intendo proprio scriverlo, perché musicalmente sono uno che ogni settimana tira fuori in media 2 o 3 idee che poi accantono in un angolo. E’ una mia fissazione. Mi mantiene in forma».
Cioè, mi stai dicendo che questa settimana hai tirato fuori tre idee musicali?
«Questa settimana due, ad essere precisi».
Un bel vantaggio quando poi si tratta di fare un disco…
«Sì, vado a scartabellare, cerco di capire quali musiche voglio e poi lavoro su quelle idee e ci scrivo sopra i testi. Ma sai qual è la cosa divertente?».
Dimmi…
«A me fanno troppo ridere quelli che sentono un disco degli Zen e poi dicono: “…eh, ora sono poco ispirati”. E poi in realtà i brani che ascoltano provengono musicalmente da un periodo, del passato, che magari li aveva entusiasmati. Insomma, 5 anni prima ci adoravano e ora magari ci criticano ma non sanno che alcuni pezzi arrivano dal passato. E’ fantastico tutto questo».
Beh, un po’ sei come Nick Cave, che lavora quotidianamente – tipo impiegato – sulla musica…
«Sì, sì, io condivido al 100% il suo modo di pensare. La musica, come qualsiasi altro lavoro, non può essere “lavorata” a fasi alterne, ma bisogna esercitarsi su di essa quotidianamente. Poi la scrittura dei testi è un’altra fase ancora, ma sono felice di avere il cassetto pieno di musica».
Nel nuovo disco citi spesso persone e animali. Hai simpatia per una delle due categorie?
«Persone tutta la vita. L’umanità è la mia specie. Intendiamoci, io non odio gli animali, anzi, li adoro: io ho una personalità felina, sono cresciuto in mezzo ai gatti e di sicuro il gatto è il mio animale guida. Tuttavia preferisco le persone».
Non pensi però che l’animale sia meno deludente rispetto agli Esseri umani?
«Ma sai, la mamma squalo, appena partorisce, non riconosce il figlio, e il figlio ha nel dna la consapevolezza che deve nuotare il più veloce possibile altrimenti la mamma se lo mangia. L’animale di per sé non è né buono né cattivo, è istinto. Quando sento quelli che dicono: “…oh, guarda il cane com’è buono, ha dei sentimenti buoni”. Penso: “…grazie al cazzo, non capisce un cazzo!”. Intendiamoci, io adoro i cani, anche se preferisco i gatti mille volte».
Prima abbiamo parlato di felicità. Ora vorrei chiederti qualcosa sull’invidia. Tu sei uno che invidia i colleghi? Ti è mai capitato?
«Mi è capitato da ragazzino. Per una mancanza di sicurezza. Ma qui si parla di tanti e tanti anni fa. Ora ho 11 dischi sulle spalle e non credo di nutrire particolari invidie. Forse perché sto invecchiando».
Nessuna invidia, quindi?
«Nei confronti di questo o quell’altro artista, no. Invidio però la pagina bianca».
Cioè?
«Invidio chi non ha mai fatto un disco, chi è giovane e deve ancora scrivere tutta la sua storia musicale. Perché hai tutto davanti, cazzo, hai tutto da guadagnare e tutto da perdere. Ecco, quella è una situazione che purtroppo non potrò mai più rivivere. Vorrei, ogni tanto, resettare tutto e ripartire da zero. Perché la fregatura di essere un nome un po’ noto, è creare aspettative, e quindi ogni volta finisce che c’è quello che rimane deluso, quello che prende il cd perché sa che ci sono io e va bene tutto quello che faccio. Insomma, mi manca un po’ il pepe al culo di costruire qualcosa da zero. Però c’è di peggio nella vita».
Restiamo nel campo delle emozioni. Quali sono i colleghi che ti emozionano?
«Chi mi ha emozionato forte, è stato spesso Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti. Non sempre, ma spesso. Giovanni Truppi è un altro bravo. Ma ora non vorrei fare torto a qualcuno, quindi mi fermo qui».
Che rapporto hai con le critiche. Mi spiego meglio: tu vai a leggere i commenti dei fans magari su YouTube?
«Sì, sì, sì, non me ne vergogno, l’ho sempre fatto. Però ci sorrido. Non c’ho 21 anni per cui mi incazzo o non mi sento capito se leggo una critica o una cattiveria. Sai, ormai di baggianate, di cose intelligenti o di critiche costruttive ne ho lette tante, quindi un sorriso e passa tutto».
Attualmente tu indossi due vestiti: uno è quello degli Zen Circus e l’altro…
«L’altro con Appino, parliamo pure in terza persona come i pazzi».
Quale vestito senti più tuo?
«Beh, il vestito degli Zen è quello che mi sta decisamente meglio. Gli Zen sono la mia band dei 16 anni, sono stati l’unico biglietto per evitarmi una vita del cazzo, una vita che era già segnata, perché sono uno diplomato in Ragioneria con 37 sessantesimi, bocciato due volte, ho fatto per 10 anni i lavori più umili. Gli Zen mi hanno sempre permesso di staccare la spina dalla mia quotidianità, e ancor prima di immaginarli come un possibile lavoro a tempo pieno, sono stati il biglietto verso l’evasione. E poi siamo amici. E’ una fortuna talmente grossa la nostra: abbiamo un pubblico talmente bello che non mi immagino fuori da questo vestito, anche se in Italia il cantante è sempre più considerato rispetto alle band».
Cosa intendi?
«Guarda, è presto detto: con gli Zen non siamo mai stati invitati in televisione, da nessuna parte, mai avuto alcun tipo di riconoscimento serio, non ci hanno aperto le porte neppure molte delle testate che adesso invece, da quando faccio i dischi da solo, mi cercano. Questo perché le band faticano a ritagliarsi uno spazio nel nostro Paese».
Se pensi a “Grande Raccordo Animale” cosa ti viene in mente?
«Beh, con diversi brani ho voluto ricordare a tutti che faccio un po’ cosa cazzo mi pare. Lo so, può sembrare egoista, ma in realtà è la cosa più vera che possa fare, perché se pensassi a cosa vogliono gli altri da me, non sarei più vero, sarebbe una presa per il culo».
Negli Anni Sessanta fare il cantautore era una roba figa. Oggi nel 2015 è lo stesso. Con le ragazze funziona?
«No, assolutamente no, funziona più essere il cantante degli Zen Circus, ma non cento volte, mille volte! Te lo garantisco».
Con “Il Testamento” hai vinto il Premio Tenco. Ma forse – per il suo stile cantautorale – era questo il disco da premiare…
«Se penso al Premio Tenco penso al cantautorato, mentre se penso a “Il Testamento” penso al metal, perché comunque diciamoci le cose come stanno: trequarti di quel disco erano metal. Quindi in realtà sono molto contento che abbiano premiato quel compact, così quando qualcuno fra 5, 10, 20 anni andrà ad ascoltare i dischi vincitori di quell’anno, si ritroverà un lavoro spiazzante, in cui a volte manco si capisce quello che canto e forse – sorride – ci rimarrà male. Invece questo è un album più… normale per il Premio Tenco. Comunque, battute a parte, credo che il Tenco lo avremmo dovuto vincere anni fa con gli Zen e “Andate tutti affanculo”».