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PERTURBAZIONE «Anche se siamo negli “anta”, abbiamo ancora voglia quando smettiamo...»

Hanno da sempre un bel modo di fare pop i Perturbazione. “Le storie che ci raccontiamo” (Mescal) dice molto di un gruppo che si è rinnovato nel tempo restando fedele alle proprie radici. E’ un album di critiche velate ma anche di grosse aperture al domani, al futuro. E’ realismo, quindi mix di stati d’animo differenti, condensato in una manciata di canzoni. Con Tommaso Cerasuolo, voce della band, abbiamo parlato del disco, ma non soltanto.

La prima cosa che vorrei chiederti è relativa a “Trentenni”. Qual è la corretta chiave di lettura del brano? Appare molto severo nei confronti di un certo tipo di donna e/o di una generazione in particolare… 

«Wow! A dire il vero cerchiamo di non esprimere dei giudizi con le nostre canzoni. Piuttosto cerchiamo di partire dalle contraddizioni dei personaggi che descriviamo per porre delle domande. Le canzoni non danno risposte: quelle le trovano gli ascoltatori. Noi pensiamo veramente che le trentenni siano la salvezza dell’occidente, con tutti i chiaroscuri che quest’affermazione può mettere in evidenza».

Perché titolarlo “Trentenni”, quando si potrebbe adattare benissimo anche a generazioni più vecchie (quarantenni/cinquantenni) che forse hanno contribuito in maniera importante a instillare (nelle donne più giovani) il cattivo esempio nei rapporti sentimentali?

«Hai ragione quando fai notare che l’incertezza non è una caratteristica di una sola generazione, ma è una buona età anagrafica per esprimere, oggi, l’incertezza. Le trentenni siamo noi. I Perturbazione, oggi. C’è un uomo che non è quello che ti sei raccontato. C’è un mondo là fuori, che non è quello che ti aspettavi. C’è il carattere che si forma mentre cerchi di rimanere in equilibrio tra il peso delle tue decisioni e il bisogno di quel tipo di spensieratezza che era così facile evocare quando si era più giovani e irresponsabili. Se studi la storia del gruppo negli ultimi anni, è facile capire perché questa canzone è letteralmente saltata fuori dal cassetto in cui stava chiusa da tre anni per raccontarci chi siamo oggi e quali sono le storie che ci raccontiamo. Anche se siamo negli “anta”, abbiamo ancora voglia quando smettiamo…».

Da una tua recente intervista: “…abbiamo sempre avuto questa “mania” dell’osservazione, di guardare la realtà attorno e dentro di noi”. Questo osservare la realtà odierna ti fa essere ottimista o pessimista verso il futuro? 

«Penso che ciascuno di noi abbia una parte ottimista e una pessimista, in costante lotta. Per carattere, io sarei pessimista. Ed è per questo che mi ripeto che “dipende da me”, per citare il titolo della prima traccia del disco. Mi ripeto che posso scegliere di essere ottimista. Di sorridere, di affrontare le difficoltà anziché subirle. Di partecipare e utilizzare i social, anche se tanti aspetti di questo tipo di comunicazione non mi appartengono e sono nato in un’epoca in cui la musica si ascoltava con le musicassette. Ci sono molte trappole nel modo in cui comunichiamo oggi. Alcune di queste trappole tentiamo di descriverle in diverse canzoni del disco (“Cara rubrica del cuore”, “Una festa a sorpresa”, “Cinico”). Ma credo esistano anche molte opportunità e m’interessa la ricerca di una identità attraverso questi mezzi tecnologici. E’ sicuramente un’epoca in cui è molto difficile trovare un vocabolario comune. Anche a causa di una crisi ideologica. Ma proprio per questo è interessante rendersi conto di quante false verità si nascondessero nelle ideologie che rimpiangiamo, gli “ismi” sempre in agguato. Non mi piace essere apocalittico. E non ho grande stima per i colleghi che scadono in quello che chiamerei populismo: il lamentio gratuito, il vaffa, il “fa tutto schifo”, “mi sono rotto”, “avete rotto i…”. Devo andare avanti?».

Il disco è nato a Londra da Colliva, tecnico dei Muse. Cosa c’è di sfacciatamente londinese in questo lavoro? Qualche testo o melodia ha beneficiato dell’aria de La City? 

«Quando abbiamo capito che l’unico modo per riuscire a fare il disco con Tommi era raggiungerlo a Londra, ci siamo detti: “E’ il destino!”. Noi siamo cresciuti a pane, Smiths e Cure, ed è ovvio che quel luogo sia evocativo anche solo percorrendone le strade. Senza contare che Londra costituisce nell’immaginario italiano una sorta di luogo delle ripartenze. Negli ascolti comuni tra noi e Colliva c’erano molti riferimenti a musica anglosassone: ascoltando i provini citavamo gli Everything But The Girl a proposito di “Trentenni”, gli Stars per “Cara rubrica del cuore” oltre a Phoenix, Massive Attack, Talk Talk, Black Keys, Fka Twigs, The National. Come vedi molti di questi artisti non sono necessariamente inglesi, ma tuttavia si muovono nel contesto di un sound internazionale che nella lingua inglese ha il suo comun denominatore, proprio come il paesaggio sonoro in cui si muove Colliva».

Nella vostra permanenza, cosa avete osservato di un popolo che è tanto europeo quanto molto “per i fatti suoi” da sempre?

«Quando dici che i londinesi sono fatti “per i fatti loro” a me viene in mente che ci sentiamo un po’ così anche noi, in Italia: non intendo che ci sentiamo dei marziani, per carità, piuttosto che continuiamo a percorrere la nostra strada, che sta lì “per i fatti suoi”, influenzata da mille stimoli diversi, molti anche squisitamente italiani, ma mischia tutto per tentare di raccontare la nostra storia. Questo fa il pop quando ha coraggio: imbastardisce tutto per essere originale, come una fenice che nasce dalle ceneri delle culture di cui si nutre».

“…siamo le storie che ci raccontiamo” fa da mantra nell’ultimo brano del disco. E’ una frase neutra, che si può “leggere” in modi completamente differenti a seconda del valore da dare alla parola “storie”. E’ un po’ come il finale “aperto” di un film. Qual è stata la storia che ti sei raccontato di recente?

«La storia che mi racconto io tutte le mattine allo specchio sta a metà tra “Dipende da te” e “Trentenni”: ci sono giorni in cui i miei quarantatré anni pesano come duecento, altri in cui riesco ancora a percepire il controllo della mia vita. Ma il controllo non è tutto (avessimo potuto spiegarlo a Ian Curtis…). In questo disco la parola “caso” – il fato – ritorna più volte: in “Everest”, in “Dipende da te”. Credo che maturare significhi in parte accettare la legge del caso, dell’imprevedibile. Io faccio molta fatica, ma ci sto provando».

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