ERIO «Io, che mi faccio domande assurde su cosa possa succedere mescolando suoni e tecniche»
Erio non ha soltanto una bella voce e una presenza scenica forte, ma ha un modo di cantare che allontana per forza di cose l’indifferenza. Dopo aver studiato canto lirico e composizione, qualche anno fa ha iniziato a scrivere una manciata di brani che solo su consiglio della madre ha deciso di inviare ad alcune case discografiche. Da lì il suo percorso ha preso il via, arrivando ultimamente a partorire il secondo album, uscito per Kowloon/La Tempesta International. Insomma, fate alla svelta a conoscerlo, prima che siano gli altri a farvi sentire tremendamente in ritardo in fatto di cose “veramente interessanti che circolano in ambito indipendente”.
Il secondo disco ti ha esposto a particolari pressioni? Insomma, le cose iniziano a farsi serie…
«Non direi di aver subito particolari pressioni, se non quelle che mi sono fatto da solo. Volevo assolutamente fare un passo in avanti nel raggiungimento di più autonomia nella gestione del mio progetto con questo disco, quindi è stato sicuramente più faticoso rispetto al precedente, sia perché ho gestito, insieme ai professionisti che stimo di più, ogni aspetto del lavoro: dalla musica alle grafiche, sia perché ho dovuto credere in quello che facevo anche quando le persone intorno a me sembravano poco convinte che fosse il momento giusto per un’operazione del genere».
Nel tuo modo di cantare è facile trovare riferimenti stranieri (penso a Bjork), ma in ambito italiano cosa ha ispirato e cosa ispira tutt’oggi la tua voce?
«In effetti la maggior parte degli artisti che ascolto e ho ascoltato provengono un po’ da tutto il mondo. Mi sento un po’ svincolato da questo apparente obbligo morale di ascoltare musica italiana in italiano e penso anche che siamo uno degli ultimi Paesi rimasti in Europa che fa della lingua una questione di vitale importanza. Basti pensare che mandiamo all’Eurovision artisti selezionati tra i big di Sanremo ed è chiara quanta sia la voglia di essere compresi a livello globale. Detto questo, tra gli italiani, a livello vocale, ho ascoltato molto Giuni Russo, Antonella Ruggiero, le prime cose di Elisa, che erano molto intriganti vocalmente, e Meg. Poi tante altre cose, ma che forse hanno il loro punto di forza più nei testi che nell’esecuzione».
Le melodie di questo album sembrano non voler concedere troppo al pop, anche se poi l’orecchiabilità, qua e là, entra nella tua musica, penso a “Limerence”. Mi dici la tua sul pop? E’ un genere che guardi con diffidenza?
«Ascolto molto pop e lo trovo piacevole anche perché è creato appositamente per esserlo. Di solito, quando mi metto ad ascoltare musica è facile che io finisca a rovistare nei meandri delle produzioni più anormali della storia della musica, ma dedico davvero molto poco tempo a questo, quindi l’ascolto quotidiano avviene principalmente per osmosi e credo che da qui (quello che sente il vicino, quello che passa la radio in macchina, quello che mettono in discoteca) provenga la vena pop di questo disco. Il resto sono io che mi faccio domande assurde su cosa possa succedere mescolando suoni e tecniche e su cosa fare per nascondere la cervelloticità (se questa parola esiste) dei pezzi dietro a una sensazione di compiutezza».
In copertina, nel nuovo disco, ci sono tre “Erio”, di quale dei tre possiamo fidarci e quale dei tre ti fa più paura?
«Non saprei. Ci sono sicuramente dei lati dark nel mio carattere ma forse sono più io a dover averne paura che voi. Per il resto direi che, secondo me, a spaventarci dovrebbe essere la mancanza di introspezione e di messa in discussione del proprio sé, di chi è convinto di avere un’identità coesa e univoca. Immagino che quel tipo di rigidità sia poco compatibile con la compassione e l’empatia».
In queste settimane sei ancora in tour. Cosa ti dà la dimensione live, ti piace avere gli occhi addosso del pubblico mentre canti le tue canzoni? Oppure ti senti vulnerabile in quel momento?
«Le canzoni del primo disco erano tutte molto incentrate su questioni molto personali, storie di abbandono scritte dal punto di vista della vittima. L’ingrediente principale della ricetta era volutamente la vulnerabilità e questo si rifletteva nei miei live. Questo nuovo disco è, seppur tra alti e bassi, un viaggio alla scoperta di me stesso e di un certo orgoglio o, almeno, menefreghismo nei confronti del giudizio altrui e credo che il live ne risenta. Salgo sul palco con degli outfit e del make-up molto peculiari e questo mi aiuta in due modi: mi aiuta a entrare nel personaggio e mi fa sentire schermato allo stesso tempo. Sono ancora alle prime date ma ho avuto dei feedback molto positivi dal pubblico, che pare felice di accogliere questa ulteriore anormalità visiva».
Tu che ambizioni hai relativamente al tuo progetto? Insomma, fra 10 anni dove ti immagini artisticamente?
«Mi piacerebbe molto continuare a scrivere e produrre la mia musica e anche approfondire il mio coinvolgimento nel lato visuale di questo progetto. Sarebbe bello avere una risposta di pubblico che mi permettesse di continuare in questa direzione in futuro, ma so anche che è molto difficile, soprattutto in questo periodo e soprattutto in questo Paese, quando si vuole continuare a fare le cose in libertà senza vincoli artistici. In un mondo ideale, tra dieci anni, mi vedo su un palco a cantare le canzoni del mio settimo disco, canzoni che spero siano sette volte migliori rispetto a quello che faccio adesso».