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KARKADAN «Tante volte le cose mangiate male non le digerisci e poi, appunto, le vomiti»

Il suo nuovo album “Klit W Radit”, che in italiano suona come “Mangio e vomito”, è ormai alla fase finale della realizzazione. Ci siamo, dunque. Karkadan è pronto al rientro. Il rapper di origini tunisine (membro della Dogo Gang fin dalla prima ora) è attivo da più di dieci anni sulla scena e il nuovo lavoro conterrà varie tematiche sociali – tra cui anche il rapporto tra islamismo e cristianesimo – e ci saranno come ospiti solo rapper italiani.

Sabri, la prima cosa che voglio chiederti è relativa alla Tunisia, che a noi italiani fa venire in mente vacanze low cost, ma anche Craxi e la Primavera Araba. Cos’altro c’è da sapere di un Paese così vicino ma anche così lontano?

«Spesso mi capita di rispondere a domande di amici e conoscenti sulla Tunisia e, anche chi è stato in vacanza da quelle parti (in qualche villaggio turistico), ragiona un po’ per sentito dire. Sono domande che mi fanno capire come l’immagine sia un po’ quella di un qualsiasi Paese “arabo”. Quindi ogni volta mi trovo a raccontare episodi e abitudini che fanno capire come la Tunisia abbia uno stile di vita non molto distante dal modello europeo e occidentale: ci sono delle differenze, certo, sia in peggio sia in meglio, ma anche molte similitudini e qualcuno si stupisce. Tra l’altro non ci torno da un po’ e avrei voglia di farmi un giro, anche se Milano ormai è la mia città».

Da straniero trapiantato in Italia, come stai vivendo il fenomeno dell’immigrazione in Europa di queste settimane? Pensi che l’Europa stia facendo abbastanza o possa fare di più?

«Non credo di poter dire se l’Europa stia facendo abbastanza, nel senso che non mi piace chiacchierare senza conoscere a fondo certe leggi, certe situazioni specifiche, gli orientamenti dei vari governi. Io faccio musica, parlo di quello che vivo e vedo e varie mie canzoni dicono abbastanza sul mondo di oggi, sempre in relazione alla mia esperienza (i testi in arabo spesso li spiego). Poi non ti nascondo che, nonostante io sia tunisino a tutti gli effetti, mi sento anche milanese: sto per avere un figlio con la mia compagna (milanese, appunto), ho tanti amici di queste parti e spesso scopro di conoscere la città meglio di loro. Insomma, ho origini straniere, ma non mi ritrovo nella definizione di “straniero trapiantato in Italia”. Forse poteva starci all’inizio, quando sono arrivato, ma oggi no. In ogni caso, aggiungo solo che l’immigrazione è un fenomeno naturale da anni, per vari motivi».

Il tuo nuovo disco a che punto è? 

«Sono a buon punto, mancano alcuni dettagli ma per lo più ci siamo».

Quali saranno gli ospiti?

«Gli ospiti saranno tutti italiani ma preferisco svelarli tra un po’, anche se uno l’ho già annunciato su Facebook ed è Nerone, un ragazzo che stimo molto».

Perché hai scelto un titolo come “Klit W Radit”?

«Ho scelto il titolo “Klit W Radit” perché anche io ho provato a mangiare tanta “merda” finché ho vomitato (è una metafora cruda ma direi che rende bene l’idea) e poi è anche vero che tante volte le cose mangiate male non le digerisci e poi, appunto, le vomiti».

Hai fatto parte della Dogo Gang. Esiste ancora? Ti senti ancora parte di quella crew? E che rapporti hai oggi coi componenti della stessa?

«E’ sempre stato un gruppo di amici uniti da una passione. E come in qualsiasi gruppo di persone che si frequentano ho rapporti migliori con qualcuno mentre con altri non possiamo definirci veri amici. Spesso si è confusa la Dogo Gang con un gruppo musicale quando in realtà non è che si possa dire quando è stata formata e se si è sciolta. E’ una sigla su cui i media hanno fatto spesso confusione. Ma mi rendo conto che nell’hip hop tra gang, crew, posse e altri nomi simili, è difficile stare dietro a tutti e tutto e cogliere le differenze. Insomma, non credo che la Dogo Gang smetterà mai di esistere né che influirà in qualche modo sulle nostre rispettive carriere».

Tu hai lavorato in ambito indipendente e con una major. Cosa ricordi dell’esperienza con la Universal?

«E’ stato un bel momento della mia carriera, a livello artistico mi ha dato molte soddisfazioni e ho dei bei ricordi. Con Universal non tutto è andato liscio, anche perché poi sono tornato a essere indipendente, ma erano altri tempi, sia per me sia per loro. Il mercato musicale negli ultimi anni è cambiato tantissimo, dunque oggi le strategie delle major per forza di cose sono un po’ diverse da quegli anni. Ma se devo dire una cosa su cui sono stato un predecessore (non l’unico ma uno dei primi) è la forza sui social network, dove ancora oggi mi sto togliendo grandi soddisfazioni: andate a vedere le visualizzazioni che sta facendo il video di “Essid”, che ho caricato direttamente su Facebook, sulla mia pagina ufficiale. In Italia non siamo in tanti, nel giro rap, a poter fare certi numeri».

Cristianesimo e Islamismo oppure Palestina e Israele. Sono questioni che ti appassionano e soprattutto credi possibile una mediazione tra fazioni diverse?

«Beh, io sono musulmano e mi trovo benissimo con il modello di vita italiano, che a prescindere dal fatto che uno creda o meno, di fatto ha origini culturali cristiane. Dunque parlo per esperienza e ti dico che, anche vedendo come si vive nel mio quartiere (Maciachini/Via Imbonati) – nonostante certi fatti e notizie di cronaca -, non serve neanche una mediazione, serve semplicemente che si creino condizioni di incontro ordinarie. La gente che crea conflitti spesso non ha voglia di ragionare e ha altri problemi che vanno ben oltre la presenza di una persona con origini diverse dalle sue».

Quali sono, in Italia, i rapper che oggi attirano il tuo interesse? Insomma, chi sta portando qualcosa di nuovo, di fresco alla scena?

«Quelli che troverete nel mio prossimo lavoro di certo li stimo. Più in generale, in Italia comunque stimo e rispetto Mondo Marcio, Jamil, Vacca, Guè e, tra i meno noti, ce ne sono tanti, come Warez, i membri della Karkafam e tanti altri che sto dimenticando (lo sapete, dunque non vi offendete!)».

Il miglior modo per fare rap credibile è vivere la strada?

«No, non c’è un modo migliore, ognuno ha il suo e un rapper può spaccare anche se non vive la strada. Fare del buon rap dipende da vari fattori, prima di tutto dallo stile, che si acquisisce dopo anni di “allenamento”».

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