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ANDREA CHIMENTI «Credo nell’artista “underground”, questa parola ha per me ancora un significato»

Andrea Chimenti è l’ex voce dei Moda ma non soltanto. E’ un artista completo, multidisciplinare, verrebbe da dire. In questa intervista abbiamo provato a capire i contorni del suo ultimo disco – “Il Deserto La Notte Il Mare” – e soprattutto se è un nostalgico del passato.

Partiamo dalle ultime cose: come si è rimodellata la tua quotidianità in questi ultimi due anni di lockdown e pandemia? Ne sei uscito migliore, migliorato?

«Buona parte dell’Italia pensava che ne saremmo usciti migliori da quel periodo di lockdown. Non è stato così, penso per nessuno. Per quanto mi riguarda quel periodo ha segnato molte difficoltà, non per ultimo la chiusura dell’attività live. Ho cercato di occupare quel tempo scrivendo e progettando, leggendo e vedendo film che non avevo avuto il tempo di vedere. Questo periodo ha però messo in evidenza un’Italia su livelli diversi. Noi che lavoriamo a partita IVA abbiamo vissuto e continuiamo a vivere una condizione svantaggiata con la preoccupazione della sussistenza a differenza dei dipendenti, soprattutto statali, che possono ritirarsi in casa senza alcuna preoccupazione dello stipendio. Scusa la divagazione».

Il nuovo disco è cantato veramente bene, forse è uno dei tuoi migliori lavori sotto questo punto di vista. Tu che opinione hai in merito e come ti rapporti oggi con la tua voce?

«La voce è uno strumento che può continuare  a crescere e migliorare negli anni. Dipende molto dallo studio e dal tempo che gli si dedica. Io ho un problema cronico alla trachea che mi costringe ad allenare molto la voce se voglio cantare. Se non faccio esercizio è per me impossibile esibirmi o registrare. Se questo da un lato è un limite, dall’altro sono costretto all’esercizio che mi porta a scoprire molti aspetti di questo strumento naturale. In ogni caso credo che come in ogni disciplina lo studio e l’esercizio siano essenziali».

L’album è come se facesse da ponte tra generazioni diverse: ci puoi trovare molto della lezione dei CSI o comunque di quell’immaginario, e gli arrangiamenti sono attuali. E’ questa la sfida del cantautorato moderno, cioè fondere stagioni diverse?

«Non sono d’accordo che ci siano rimandi ai CSI. Molti brani di questo disco riprendono un modo di cantare che ho usato nel mio primo disco da solista (“La Maschera del Corvo Nero”) composto nel 1990 e uscito nel 1992. All’epoca i CSI non esistevano, che sia accaduto il contrario? Ma questo non si può dire. Riguardo la fusione di stagioni diverse credo che sia l’ultima frontiera della musica. Ormai è da un po’ di tempo in cui la commistione tra presente e passato è diventata una caratteristica di molte produzioni. L’importante è che ci sia sempre uno sguardo verso la ricerca».

Sei un nostalgico, in senso generale? Il passato dopo i 60 anni cos’è?

«Non sono nostalgico musicalmente. Credo che la nostalgia subentri quando vivi una condizione più spenta in confronto al passato. Il mio disco migliore è quello che ancora devo fare. Raramente mi sono voltato a guardare nostalgicamente le cose degli anni passati, infatti non ho mai più cantato un brano dei Moda da dopo il 1989, l’anno del nostro scioglimento. Nel passato affondano comunque le nostre radici e non tenerlo in considerazione sarebbe un errore. Dopo i 60 anni forse si comincia ad accavallare passato e presente in una visione globale dove la linea retta temporale acquista un volume sferico. Una visione diversa, più matura, più serena e nel mio caso lontana dalla nostalgia».

La musica che passa oggi, ti attrae, ti incuriosisce? Mi riferisco sia all’ambito italiano che straniero.

«Sì, sono sempre curioso di quello che accade musicalmente. Anche nella trap trovo cose interessanti nonostante sia un genere così distante da me. L’indie lo trovo sempre meno attraente e penso che si sia ridotto ad essere l’anticamera delle multinazionali nella migliore delle ipotesi. “Indie” non vuol dire più niente, tutti oggi possono essere indie ovvero farsi un disco in casa e metterlo su qualche piattaforma digitale. Non è più garanzia di contenuti, di una ricerca lontana dalla massificazione. Sono riusciti a distruggerlo o forse si è semplicemente distrutto dal suo interno. Credo nell’artista “underground”, questa parola ha per me ancora un significato. Credo nell’artista che compie percorsi alternativi a volte sotterranei, spesso difficili da portare avanti, ma pieni di fermento».

Tornando al disco, c’è una traccia alla quale sei più affezionato e perché?

«Difficile dare una risposta, ma credo che “Beatissimo” sia il brano che preferisco, soprattutto per i contenuti testuali. Credo di essere riuscito a creare una sintesi di quello in cui credo, di quello che sento nel profondo. Ho cercato di affrontare un argomento complesso che riguarda la sfera spirituale in modo non canonico, lontano da ogni religiosità. Un argomento non facile, ma che ha sempre influenzato la mia musica e i miei testi. Forse in questo brano sono riuscito a centrare maggiormente il mio pensiero».

Sylvian, anni fa, ti riportò alla musica proprio in un momento in cui stavi per mollare tutto. Senza quell’inaspettato apprezzamento, oggi dove saresti e a fare cosa? Rifletti mai su quell’episodio e sull’incidenza del caso/caos nelle nostre vite?

«Credo che mai nulla sia casuale. Credo che certi incontri e avvenimenti sul nostro percorso siano destinati a compiersi. Ho cercato varie volte di lasciare la musica per le difficoltà che troppo spesso ho incontrato, ma è sempre accaduto qualcosa che mi rimettesse in pista. Il mio percorso non è stato semplice, ma oggi sono felice di averlo portato avanti e questo è avvenuto anche grazie all’incontro con alcune persone che mi hanno aiutato. Una di queste è senza dubbio David Sylvian che in un momento in cui avevo lasciato la musica mi ha aiutato a credere in quello che stavo facendo. Fu Paolo Bedini a creare il contatto e grazie a lui “L’Albero Pazzo” uscì sul mercato. Era un disco in contro tendenza con la musica degli Anni ’90 e non trovavo un’etichetta disposta a pubblicarlo. L’ingresso nel progetto di Sylvian fece la differenza. Oggi se sono ancora qui a scrivere musica lo devo anche a lui. Mi chiedi cosa farei oggi se avessi lasciato la musica? Difficile dirlo, ma credo che lavorerei comunque in campo creativo, quello è ciò che mi riesce meglio. Ho sempre affiancato al mondo musicale la scrittura, il disegno o le installazioni museali che ancora oggi realizzo. Sono tante facce di una stessa medaglia dove la musica oggi continua ad essere la principale. Forse l’alternativa sarebbe stata quella di dedicarmi totalmente a questi altri settori, ma probabilmente non c’erano alternative, la musica doveva esistere nella mia vita».

Sei un artista realizzato oppure ti resta un pizzico di insoddisfazione per un riconoscimento alla tua arte mai stato pieno?

«Il mio percorso, come avrai capito, non è stato facile. Non ho mai cavalcato mode e tendenze, non sono mai stato un buon artigiano della musica da poter scrivere e comporre quello che più poteva piacere ad un grande pubblico. Mi sono state proposte strade apparentemente più semplici, ma non le riconoscevo come mie. Sono rimasto nel mio piccolo, certo avrei ambito a qualcosa di più, ma non importa. Sono fortunato ad avere un pubblico particolarmente intelligente, molto esigente che mi onora acquistando i miei dischi. È un pubblico che non si accontenta, che non è passivo e cerca al di fuori delle proposte mainstream. Sono fortunato in questo senso e spero sempre di riuscire ad arrivare a chi ancora non mi conosce».

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