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DARDUST «Mi piace essere considerato un “performing producer" o "composer” più che pianista»

«Mi piace essere considerato un “performing producer” o “composer” più che pianista». Dario Faini è la mente attorno alla quale ruota il progetto Dardust. Ma Faini è molto altro, è anche un apprezzato “paroliere”, capace di incrociare la sua strada con quella di diversi artisti della scena pop italiana. L’abbiamo intervistato, e abbiamo colto l’occasione per parlare di “Birth“, il nuovo disco.

“Nei miei sogni ho incontrato Satie e l’ho portato a ballare al Berghain”. Così descrivi Dardust.

«Satie e il Berghain sono due simboli per esprimere la sfida di rendere ancora più minimale la scrittura pianistica e ancora più aggressiva la parte elettronica».

Tu al Berghain (famoso club techno di Berlino) ci sei mai stato? 

«Al Berghain non ci sono mai stato ma l’ho sempre vissuto attraverso i racconti mitologici dei miei amici, soprattutto quelli su Sven, il “buttafuori”. Ogni volta che siamo stati a Berlino ci siamo sempre blindati in studio, ma prima o poi ci andrò».

Dal vivo la proposta è davvero coinvolgente. In studio è più faticoso lavorare sul suono Dardust?

«Ho delle visioni sui brani, su come devono suonare, cosa devono raccontare, cosa devono campionare e su come devono essere strutturati. A volte parto dall’idea di un campione, a volte da una visione oppure da un riff di piano. Poi si lavora in team e il team Dardust con Vanni Casagrande e Carmelo Patti ha sempre spaccato e ottenuto risultati incredibili in poco tempo. Abbiamo fatto due dischi in due anni, per il prossimo sicuramente ci prenderemo molto più tempo».

Da pianista, mi dici la tua su alcuni nomi che vanno forte nelle classifiche di vendita? Penso ad Allevi e al più recente Ezio Bosso.

«L’emotività di Bosso è profonda e unica. Giovanni, con il quale ho studiato pianoforte allo “Spontini” di Ascoli, è un ottimo esecutore con una tecnica solidissima».

Nella tua carriera hai spesso incrociato le strade del mainstream (come autore) e della scena indipendente. Sono estremi così diversi?

«La scena indie vive in un mondo tutto suo che è fatto per fortuna di libertà espressiva sicuramente, ma anche di hype che cambiano di periodo in periodo. Nel mainstream ci sono vari aspetti e passaggi che condizionano e filtrano la creatività. A volte un’idea di partenza arriva all’artista giusto con una produzione che lo valorizza ancora di più, come è stato con “Luca Lo Stesso” di Luca Carboni (brano che ho scritto con Luca e Tommaso Paradiso), altre volte il brano di partenza è detonato perché i vari passaggi lo hanno snaturato».

Le tue canzoni sono finite anche a Sanremo. Il Festival è diverso dai Talent? Oppure sono due facce della stessa medaglia?

«Due contesti diversi. Il Festival è quella settimana in cui sembra che qualsiasi cosa accada sia la più importante del mondo e che se una cosa va bene o va male, tu sei segnato per sempre. E puntualmente dalla settimana dopo tutto è esattamente il contrario. I Talent sono mesi e mesi di esposizione e crescita in cui gli artisti fanno un percorso e si lasciano scoprire e costruire».

L’elettronica è forse il genere musicale più liquido in assoluto. In questo momento dove dovremmo guardare per trovare le cose più originali?

«Difficile rispondere. A me la scena italiana piace davvero tutta da Populous passando per Niagara, Aucan e Yakamoto Kotzuga. Poi mi intrippo con gli islandesi e ascolto un mese i GusGus e Kiasmos. E poi Moderat, e poi Jon Hopkins e poi i Weval e poi non saprei. Ti direi, insomma, di guardare dappertutto».

“Birth” è stato registrato in Islanda. Cos’ha di magico quel Paese?

«La magia è nella convivenza degli opposti che creano un equilibrio unico. Ghiaccio e fuoco, sabbia e lava, mare e montagne. Bianco e nero. Credo che “Birth” sia esattamente questo».

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