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NICOLA MANZAN «Mi piace sconvolgere l’ascoltatore ma spesso la gente si fa un’idea sbagliata di quello che sono»

Pensi a Nicola Manzan e ti viene subito in mente il progetto Bologna Violenta e poi di rimando ti vengono in mente decine e decine di altre partecipazioni in progetti altrui. E naturalmente pensi anche ai suoi show, che vivono di pura forza espressiva. Nicola è al lavoro su del nuovo materiale di prossima uscita, ma questa intervista parte dalla musica per abbracciare temi diversi. Un buon modo per conoscere il “Manzan-pensiero”, che non per forza di cose dev’essere violento…

La prima cosa che ti chiedo, è qualcosa sul nuovo materiale che stai lavorando: quando uscirà?

«Ho appena finito di registrare quattro pezzi che andranno a finire in uno split con i Dogs For Breakfast in uscita a metà aprile. La sonorità e lo stile sono la naturale evoluzione di quanto fatto fino ad ora, da un certo punto di vista sono molto vicini ad “Uno Bianca”, anche se è presente un episodio che nella mia testa è quasi “crust”, ovvero molto tirato e dritto, vicino a certe cose power-violence. Ci sono molti archi, come al solito, che vanno anche a sostituire quello che un tempo facevano i synth, ovvero le parti più rumorose e disturbanti».

Nel nuovo disco ci saranno ospiti?

«Questo disco esce a dieci anni esatti dall’inizio dell’avventura Bologna Violenta, quindi sentivo la necessità di fare un passo avanti in generale e di cambiare un po’ le carte in tavola. Partendo da questo presupposto, ho scritto i pezzi con un batterista in carne ed ossa che mi seguirà anche nei concerti a partire dall’uscita di questo lavoro in poi. Si tratta di Alessandro Vagnoni, batterista dei Dark Lunacy e Resurrecturis, oltre che di molti altri progetti. Ci conosciamo da qualche anno e dopo un bel po’ di frequentazione “online” ho deciso di affidargli il gravoso compito di affiancarmi (dico gravoso perché i miei pezzi non sono pensati per essere suonati da un batterista, quindi anche solo imparare quelli vecchi è un’impresa per pochi). Altro ospite graditissimo è Marco Coslovich dei The Secret, che ha cantato in un pezzo. Anche in questo caso, ci conosciamo da anni e da un po’ si parlava di fare qualcosa insieme. Volevo che almeno un pezzo fosse cantato e devo dire che lavorare con lui è stata un’esperienza molto piacevole e costruttiva, senza parlare del risultato, che è assolutamente incredibile. Non lavoro spesso con altre persone, anzi, tendo a fare tutto da solo, ma devo dire di essere molto soddisfatto di quello che è uscito da questa doppia collaborazione».

Dopo tantissime collaborazioni e progetti, hai smesso di scavare con la tua musica nella “mostruosità dell’essere umano” oppure è un bisogno difficile da sopire?

«Devo dire che dopo la “pesantezza” di “Uno Bianca” avevo voglia di fare qualcosa che fosse più prettamente musicale. Un conto è parlare delle brutture dell’uomo basandosi su storie più o meno inventate, un altro è raccontare una storia vera e terrificante come quella della banda dei fratelli Savi. Quindi ho deciso che questo nuovo lavoro dovesse essere più “musicale” a priori, non per niente ho deciso di raggruppare i quattro pezzi sotto un unico titolo, “Sinfonia n° 1 in Fa-stidio maggiore op. 35”, in modo da prendere un po’ le distanze dalla cronaca e da fatti realmente accaduti, in modo da ritrovare un po’ di spensieratezza in quello che faccio. Certo è che faccio fatica ad allontanarmi dalla musica per così dire descrittiva, soprattutto mi piace sconvolgere l’ascoltatore, ma in questo caso ho lasciato che fosse la musica a farla da padrona».

Dalla classica, al metal passando per il rock e svariati ascolti. La tua formazione musicale è stata a spettro ampio. Sei tra quelli che imporrebbero la musica classica nelle scuole?

«No, io vorrei semplicemente che nelle scuole si insegnasse che la musica è un’arte, non un semplice intrattenimento o un sottofondo della nostra vita. La musica ci dovrebbe arricchire a livello interiore e non solo fungere da contorno a quello che ci succede durante la giornata. Se potessi, obbligherei gli insegnanti di musica a far sentire quante più cose possibili, partendo dalla musica classica fino ad arrivare all’harsh-noise, passando per tutto quello che c’è in mezzo, senza distinzione di genere e senza pregiudizi. La gente spesso non ha idea che esistano certi tipi di musica e dovrebbe essere la scuola a far scoprire ai più giovani cosa si può fare con uno strumento o con un computer. Poi ognuno sarebbe più libero di ascoltare quello che realmente piace, non solo quello che viene proposto dai mass media».

Se uno si andasse a sentire anche altre cose oltre a Bologna Violenta, capirebbe che la mia persona è un po’ più complessa del semplice artista che perde la testa sul palco

Il nichilismo e la rabbia sono fra le tante facce della tua musica. In che misura rappresentano anche Nicola nella quotidianità? Nel senso: quanta distanza c’è tra l’artista e il Nicola che va a fare la spesa al supermercato?

«Questa è una domanda che dovresti fare alle persone che mi stanno intorno. Sinceramente non credo ci sia una grandissima differenza tra le due “entità”. A parte il discorso “violenza”, che è una cosa che mi appartiene solo a livello sonoro, per così dire, mi piace provocare e spesso non riesco a mettere dei filtri tra il cervello e la bocca. C’è da dire, però, che con la musica cerco di tirar fuori il mio lato più oscuro, quello più brutale e cinico, perché altrimenti penso che dovrei tirarlo fuori nella vita reale e potrebbe essere un problema sia per me che per gli altri. Spesso la gente si fa un’idea sbagliata di quello che sono in realtà, perché se ci si ferma all’aspetto musicale non si può avere un’idea completa di quello che sono, ma penso anche che, se uno si andasse a sentire anche altre cose oltre a BV, capirebbe che la mia persona è un po’ più complessa del semplice artista che perde la testa sul palco».

Restando in tema di distanze, tu conosci benissimo la scena indipendente e hai frequentato anche quella mainstream, penso solo al lavoro fatto per Ligabue. Sono da sempre due ambienti che si lanciano accuse vicendevolmente. Non ti chiedo di prendere posizione contro o a favore, vorrei però sapere da te quali sono i limiti più evidenti dei due ambienti.

«Secondo me il limite più grosso dell’ambiente mainstream è che è spesso governato da major, ovvero case discografiche che puntano solo ai soldi facili, senza pensare che dietro ci siano delle persone che ci mettono anima e corpo in quello che fanno. I talent show di questi ultimi anni sono la testimonianza più eclatante del fatto che si cerca qualcuno che venda il più possibile, magari per un brevissimo periodo di tempo, ma, ripeto: il più possibile».

Dall’altro lato, invece?

«L’ambiente indipendente spesso tende ad essere troppo autoreferenziale, nel senso che sembra che se uno non ha un successo stratosferico sia colpa di quelli che invece ce l’hanno. Pensare che ci sia un solo modo di fare musica o di proporla al pubblico è quanto di più sbagliato ci possa essere. Ci sono artisti mainstream che funzionano semplicemente perché piacciono alla gente. Magari noi della scena indipendente non li apprezziamo, o non capiamo come mai funzionino, nonostante i nostri pezzi siano assolutamente migliori dei loro (sono sarcastico), ma è un dato di fatto che la maggior parte della popolazione mondiale non va in cerca di qualcosa che sia particolare o unico, ha semplicemente bisogno di sentire qualcosa che li faccia sentire confortati, senza essere per forza sconvolti dalle idee bizzarre e dalla novità».

Il “Bervismo” è un po’ provocazione (perché di base è una parola inventata che ho cominciato a scrivere sul web per vedere l’effetto che faceva), ma è anche un tentativo di creare qualcosa di diverso da quello che siamo abituati a vivere ogni giorno

Il “Bervismo”, il tuo modo di intendere la vita, è fondamentalmente una provocazione oppure è quello che qualche Secolo fa gli uomini di buona volontà chiamavano “Illuminismo”?

«Il “Bervismo” è un po’ provocazione (perché di base è una parola inventata che ho cominciato a scrivere sul web per vedere l’effetto che faceva), ma è anche un tentativo di creare qualcosa di diverso da quello che siamo abituati a vivere ogni giorno. La politica e la religione non ci piacciono? Bene, creiamo qualcosa di nuovo, di nostro, cercando di far trionfare la ragione e la razionalità, nel rispetto degli altri, senza prevaricazioni, senza per forza cercare di essere migliori di altri solo sulla base di idee o dogmi che abbiamo imparato senza mai porci la domanda: è giusto quello che mi hanno insegnato? Insomma, il “Bervismo” vorrebbe essere una specie di contenitore vuoto in cui ognuno mette il meglio di sé nel rispetto del prossimo e del pianeta in cui viviamo».

Alcuni lati della tua musica sono molto cinematografici. C’è un film – recente o no – che ti sarebbe piaciuto musicare?

«Vado sul classico e dico “Cannibal Holocaust”. Qui la musica ha un ruolo fondamentale, soprattutto per il contrasto che spesso ha con le immagini, quindi è descrittiva, ma al contrario, in un certo senso, rende il tutto ancora più drammatico e surreale. Poi potrei dirti anche che mi sarebbe piaciuto lavorare sui film di Kubrik, ma qui siamo proprio a livello di fantascienza pura (in tutti i sensi)».

Visti dal palco e anche nella quotidianità, come ti sembrano queste ultime generazioni?

«Vedo molti giovani con la testa sulle spalle e molti che invece non hanno proprio idea di cosa voglia dire stare a questo mondo. Ma penso che siano due caratteristiche tipiche di una certa età. In generale, con tutta la tecnologia di oggi e con la velocità di comunicazione, spesso ho l’impressione che ci sia una superficialità dilagante che un po’ mi spaventa».

Sono diversi dai giovani della tua adolescenza?

«Devo anche dire però che quando ero più giovane io c’era moltissima gente che comunque non era interessata a niente di più di quello che non fosse la semplice quotidianità, il cercare di arrivare a fine giornata senza porsi troppe domande, vivendo alla giornata senza porsi troppi problemi. C’è da dire che, essendo gran parte della comunicazione fatta da dietro uno schermo, molti si sentono più furbi o intelligenti di altri, ma anche in questo caso mi vien sempre da pensare che persone di questo tipo, in un modo o nell’altro, ci sono sempre state e sempre ci saranno».

Se la musica mi ha tolto qualcosa, forse mi ha semplicemente liberato da molte zavorre che mi avrebbero impedito di realizzarmi come essere umano

Cosa ti ha dato e cosa ti ha tolto la musica?

«La musica mi ha dato moltissimo, è tutta la mia vita. Mi ha insegnato a mettermi in gioco, ad essere responsabile e disciplinato, a cercare di andare sempre un po’ oltre a quella che è la normalità per gli altri, tirando fuori quella che era probabilmente la mia vera natura e dando un senso alla mia vita».

E invece cosa ti ha tolto?

«Penso che tutto quello che mi ha tolto non sia altro che la superficialità di cui non ho mai sentito il bisogno. Come dire: se la musica mi ha tolto qualcosa, forse mi ha semplicemente liberato da molte zavorre che mi avrebbero impedito di realizzarmi come essere umano».

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