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EVA POLES «La musica? E' la cosa più egoisticamente generosa che si possa fare»

Se prendi a caso un suo video su YouTube, è quasi matematico trovare due tipi di commenti che la riguardano, quelli relativi al suo talento vocale e quelli legati alla sua esperienza coi Prozac+, che solitamente girano quasi tutti attorno al concetto che Eva Poles è stata quella di “Acida”, la super hit che in pieni Anni Novanta ha proiettato i Prozac+ ben oltre i confini dell’underground italiano. Ma attenzione, collocare Eva solo nel recinto di quell’esperienza (per quanto esaltante…) è parecchio limitativo. Perché il personaggio è davvero vario, sfaccettato, lineare e discontinuo, autoironico ma anche intransigente, irremovibile. In questa intervista la musica fa da sfondo, abbiamo tentato di mettere a fuoco soprattutto la persona.

Partiamo dall’Eva adolescente. Ho letto una tua intervista in cui dicevi che la tua vita da ragazzina è stata così noiosa da scoraggiarti persino a continuare a tenere un diario. 

«Diciamo che la mia vita interiore batteva decisamente quella esteriore, ed una mente curiosa si interessa e si annoia spesso alla stessa velocità».

La musica invece che posto aveva?

«La musica da piccolina era legata al pianoforte, che ho iniziato a studiare a 11 anni, e ai dischi (pochi) dei miei genitori, per lo più musica classica. L’interesse è cresciuto durante l’adolescenza con lo scambio di musica con gli amici, alcuni mesi passati in Svezia e l’entrata in campo di VideoMusic, che all’epoca costituiva una novità assoluta. La svolta è stata la scoperta delle band della mia città e, il fatto che fosse possibile averne una propria anche a 15 anni, mi ha conquistato. Finalmente sapevo cosa volevo e come ottenerlo».

L’incipit della tua biografia è declinata al maschile: “Cantante, compositore, autore, disc jockey”. Una scelta abbastanza fuori dalle solite abitudini. Mi spieghi il perché?

«Pensa che nessuno prima di quest’intervista lo aveva notato. Io la vedo come una declinazione neutra, e comunque non gli darei troppo peso. Credo si tratti di una “distrazione consapevole”, mi spiego meglio: alle volte mi capita di fare cose alle quali volutamente decido di non prestare troppa attenzione. Immagino che questa sia una di quelle situazioni. Mi piace che ad essere presi in considerazione siano il mio lavoro e la mia identità professionale, che in effetti non sento declinati al femminile o maschile, ma neutri. E’ anche vero che per molti anni con i Prozac+ ho cantato spesso e volentieri testi declinati al maschile, perciò per me è abbastanza comune utilizzarlo. Diciamo che è un mio vezzo».

Oggi cosa ricordi del periodo di “Acida”, la hit che portò in vetta nelle classifiche i Prozac+ nel 1998? E ti sei mai chiesta cosa spinse al successo quella canzone? Che poi è anche un modo per chiederti come si fa una perfetta canzone pop.

«Le formule magiche non esistono, esiste invece la capacità del musicista di entrare in risonanza con il suo tempo rappresentandone lo spirito o anticipando sonorità in divenire. Il destino o la fortuna (a seconda di come la si voglia chiamare) spesso fa il resto. Nel nostro caso credo si sia trattato di una combinazione di elementi: brano, momento e persone erano nel posto giusto al momento giusto. Ma tutto questo non è mai gratis, dietro c’è tanto lavoro, impegno e sacrificio; anche se poi praticamente niente di quest’aspetto arriva al pubblico, soprattutto in questi anni».

I Prozac+ si sono sciolti? In questi anni c’è mai stata l’idea concreta di una reunion?

«Ne abbiamo parlato in un paio di occasioni, ma mai nulla di concreto. Non ci siamo mai “formalmente” sciolti».

In che rapporti sei oggi con Gian Maria ed Elisabetta? Quando è stata l’ultima volta che vi siete visti?

«Io ed Elisabetta abbiamo sempre avuto frequentazioni in ambiti diversi, ma ci siamo sentite da poco. Con Gian Maria non ci si vede con la regolarità di un tempo, ma i nostri rapporti sono stati per così a lungo talmente stretti, che si mantengono comunque inscindibili. Comunque ci siamo visti un paio di settimane fa».

Tu hai vissuto diverse epoche della discografia italiana. Com’è cambiata e rimpiangi qualcosa degli Anni Novanta?

«Gli Anni Novanta non erano certo l’Eden, ma vista la situazione economica e culturale attuale, credo che ci siano molte cose da rimpiangere. Mi manca moltissimo il fermento artistico che si percepiva, l’adrenalina e la voglia di fare. In sintesi: una scena, qualcosa che oggi non esiste più».

Si parla da tanto tempo di un seguito di “Duramadre”, il tuo primo album, ci sarà? 

«Sto scrivendo e non necessariamente solo per il mio disco, ma sono discontinua, caratteristica che mi perseguita da sempre. Impegno, motivazione ed energia, sono elementi che non trovo sempre disponibili allo stesso tempo».

Il tuo percorso di formazione è andato avanti ben oltre la classica età scolare. Ma davanti a una vetrina incredibile come quella dei Talent, che apre decine di porte, perché uno dovrebbe perdersi sui libri?

«Bisognerebbe vedere cosa si nasconde dietro quelle porte dopo i primi passi. Nel prossimo futuro i Talent saranno ricordati solo per quello che sono e nulla più: un mezzo di intrattenimento televisivo popolare. Comunque, la curiosità di cui parlavo all’inizio è la risposta alla tua domanda. Spero non venga mai meno la curiosità che spinge alla scoperta, allo studio ed all’evoluzione dell’Essere umano. Puoi essere famoso/a ma continuare a non essere nessuno/a».

Oggi quali sono i progetti musicali (italiani) che più stuzzicano la tua curiosità?

«Se escludiamo gli artisti che conosco personalmente e che stimo, ma che non essendo esordienti non costituiscono una curiosità, non saprei come rispondere. Ad essere onesta, non sono molto ferrata sul panorama musicale italiano attuale perché purtroppo lo trovo poco stimolante, mi sembra si tratti di una riproposizione spesso in termini modaioli di qualcosa di già sentito, ma senza la freschezza della spontaneità. Resto legata ad un sound più anglofono».

Ho letto che sei una divoratrice di libri. Cosa stai leggendo in questo momento?

«Premessa: “Per l’Istat, “forte” è il lettore di più di 11-12 libri l’anno; in Francia i “forts lecteurs” sono i lettori di più di 25 libri l’anno; in Inghilterra i lettori assidui sono definiti “heaviest readers” e leggono circa 30 libri l’anno; in Germania, i “der vielleser”, cioè i lettori dai 14 anni in su, leggono in un anno più di 20 libri”. Io ancora non ho fatto un mio conto, ma non ho abitudini di lettura costanti (il discorso sulla discontinuità di prima…), in alcuni periodi leggo molto mentre in altri, non apro un libro. Comunque, indipendentemente dalle mie abitudini, sono un’amante dei libri anche dal punto di vista materiale/concreto, mi piacciono le copertine, i fogli vissuti, le note a margine. Purtroppo il trafiletto che ho riportato sopra, dimostra invece quanto poco leggiamo noi italiani. In questi giorni tra le mie letture si avvicendano: “Torino è casa mia” di Giuseppe Culicchia; “Lunedì o martedì” di Virginia Woolf; “La me plassa” di Elsa Del Zotto Bercan; “Thelonious Monk. Storia di un genio americano” di Robin D.G. Kelley».

Si fa musica perché, Eva?

«Perché è la cosa più egoisticamente generosa che si possa fare».

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