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ICE ONE «Il rap nei centri sociali è vivo e vegeto, ed i gruppi che ci girano sono di alto livello»

Ci sono personaggi dai quali non puoi prescindere se ami un genere o anche solo lo rispetti. Ice One per l’hip hop italiano è uno di questi. Una lunghissima carriera sulle spalle, tanti successi, una visuale panoramica sulla scena italiana che abbiamo voluto usare come bussola per capire dove (e con chi) sta andando l’hip hop italico in questo periodo storico. Di recente Ice One è anche tornato protagonista in duo con Don Diegoh e il progetto “Latte & Sangue” uscito a ottobre per Glory Hole Records.

Dai centri sociali dei primi Anni Novanta, ai Talent. L’hip hop ha fatto dei passi indietro in questo ampio lasso di tempo o semplicemente si è evoluto in un sottogenere del pop?

«L’hip hop – come tutte le cose – al momento della sua nascita era un punto minuscolo che si è espanso fino a raggiungere la dimensione che conosciamo oggi. I passi indietro sono individuali. Se un artista va ad un Talent, non è tutto un genere che va ai Talent. Se i media prestano attenzione solo a certi prodotti la responsabilità è dei media. Alcuni dei Talent che qui da noi sono scarsi e populisti, negli altri Paesi hanno delle versioni leggermente più dignitose, dove escono talenti veri. Il rap nei centri sociali è vivo e vegeto, ed i gruppi che ci girano sono di alto livello, solo non passano per le classifiche ufficiali. Alla fine in piena libertà ognuno sceglie quello che vuole».

Tu hai avuto il privilegio di vedere tante facce di Roma nel corso degli anni. Sembra una città in perenne conflitto con se stessa. C’è chi dà la colpa alla politica, ai fascisti e chi anche ai romani. Dove sta il problema?

«Il problema di Roma è che è la citta delle lobby: politica, costruttori, mafie varie che sguazzano, Vaticano, eccetera. Niente che non si sia già visto. Qui lavorano tutti in maniera ufficiosa. Pressioni di vario tipo, niente di scritto. Per cui la città che dovrebbe seguire un certo disegno, alla fine segue sempre una trama nascosta, ma dagli intenti evidenti. La scena antagonista è forte ed operosa, ma viene delegittimata costantemente da istituzioni monolitiche refrattarie al cambiamento per evidenti interessi economici. E se mentre da un lato c’è un popolo che opera alla ricerca di dignità per gli emarginati e di strumenti per il miglioramento, c’è chi addirittura si infiltra per corrodere e far marcire quei meccanismi che ancora offrono istanze di cambiamento».

Con Don Diegoh e il progetto “Latte & Sangue” avete messo in fila diverse date live. Le facce che vedi dal palco, oggi, sono diverse da quelle di 10/20 anni fa? Insomma, quanto è cambiato il pubblico che segue l’hip hop?

«Il pubblico è cambiato in meglio. Anche se delle volte manca di basi storiche, ora però il pubblico canta con te i testi, in un atto di empatia collettiva che fa paura per quanto è bello. Il pubblico ora è anche più scaltro, sa riconoscere quelli che sono i gruppi che io chiamo “dissipatori di forze rivoluzionarie”. Cioè quelli che mentre ti fomentano ti svuotano e ti mandano a casa che hai assimilato le loro paure, debolezze ed insicurezze. L’arte cura. L’artista è un mezzo. Il pubblico è una fonte di energia. Il palco uno specchio. Se l’artista riesce a restituire amplificata l’energia che riceve dal pubblico, il pubblico ora se ne accorge e ti ricambia con emozioni impagabili».

Sarei curioso di chiederti un giudizio sui nomi forti della scena attuale: Fedez, Guè Pequeno, Fabri Fibra, Marracash, Emis Killa, Salmo. Insomma, il loro è un tipo di rap che riesce a stuzzicare la tua attenzione?

«Premetto che dare un giudizio è un atto che vedo più intimo, al massimo ti posso dire la mia opinione che vale solo nella mia vita. Fedez non mi piace proprio, Guè Pequeno è molto bravo ma non mi piacciono i contenuti, Fibra lo ritengo un genio che si spreca da solo poi magari le sue tasche sono più piene, ma ha toccato vette che pochi hanno toccato in passato e anche lui lo sa, Marracash lo conosco poco e tecnicamente non ho niente da dire, anche lui incastrato nel dire cose che non condivido, Emis Killa non lo conoscevo bene e mi sono documentato, da pischello era molto bravo ma poi pure lui è diventato un cliché e secondo me pure lui ne soffre; Salmo è un self made man e può piacerti o meno ma è uno che comunque ha una sua direzione ed un’energia esplosiva».

Oggi è davvero difficile per un emergente trovare dei modelli a cui ispirarsi: perché la vecchia scuola è vista spesso come roba anacronistica mentre i nuovi miti durano il tempo di una stagione o poco più. In un contesto del genere, dove i locali per formarsi sono sempre meno, qual è il percorso da seguire per sviluppare una proposta originale e personale? Insomma, quali sono i “libri di testo” per non andare fuori corso?

«Una formula giusta non c’è. Innanzitutto forse focalizzarsi su nuovi e vecchi è un modo sbagliato di vedere le cose, probabilmente la cosa più giusta sarebbe ricominciare a ricordarci che i grandi della musica in generale mettevano la musica al primo posto, cosa che oggi succede in minima parte, dato che la musica è diventata un veicolo per vendere altro. Il mio consiglio (che in realtà è quello che faccio io) è quello di ispirare i rappers con note coinvolgenti e di raccontare storie ricordandosi che la voce è lo strumento del sentimento, e che il tono della voce modulato nella giusta maniera rende il racconto più credibile ed interessante. E se anche l’autotune mi è simpatico, una voce piena di rabbia o di amore, senza filtri, è la cosa migliore per trasmettere».

Hai nostalgia per quello che è stato l’hip hop negli Anni Ottanta e Novanta?

«Sinceramente non campo di nostalgie o rimpianti. Quando ero un barattolo di 5 anni sognavo il futuro e anche oggi succede lo stesso. E se anche delle volte il presente non mi piace, sospendo il giudizio, in attesa che un futuro più incredibile si manifesti».

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