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BLINDUR «Su tutto il nostro disco c'è l'aria disgraziata della provincia»

Per la recensione andate in fondo alla pagina, qui vi basta sapere che Blindur è il nome del duo composto da Massimo De Vita e Michelangelo Bencivenga ed è anche il titolo del loro primo disco. Arrivano da Napoli, ma ciò che davvero conta è che il loro esordio omonimo (uscito per La Tempesta Dischi) ci ha stuzzicati a tal punto da richiedere un approfondimento.

Partiamo da Blindur. E’ di Jònsi dei Sigur Rós il merito del vostro nome? Mi raccontate la storia?

«Le cose – spiega Massimo De Vita – sono andate così: dopo il concerto dei Sigur Rós a Roma nel luglio 2013, per tutta una serie di coincidenze fortunate, ho incontrato Jònsi. Avevo con me i loro dischi e, mentre li autografava, si è accorto della mia cecità e, essendo anche lui non vedente da un occhio, il discorso ha preso una piega tutta diversa, molto confidenziale e di un’umanità rara. Raccontai il fatto a Micki, ero naturalmente mezzo sconvolto, ed è stata sua l’idea di cercare la traduzione islandese di cieco, cioè blindur».

Ci sono diverse sfumature nel vostro suono. Voi vicino a quali artisti vi sentite più a vostro agio?

«Inutile dire che i Sigur Rós hanno un posto speciale nelle nostre preferenze, ma in ogni caso ci piacciono le cose più disparate: dai Pogues ai Local Natives, dai Lumineers ai Tre Allegri Ragazzi Morti, dai Great Lake Swimmers ai Múm, da Bon Iver agli Arcade Fire».

Sui testi è stato fatto un lavoro eccellente. Ascoltando le vostre canzoni sembra vi venga facile parlare della vostra generazione. E’ veramente così?

«Le parole sono una parte importantissima per noi, il lavoro sui testi è spesso certosino e può durare anche un bel po’. Rispetto alla cifra “generazionale”, è sicuramente una cosa di cui ci piace parlare, ma è soprattutto la più naturale e la più onesta, nel senso che sono cose realmente successe, pezzi veri di vita. Una specie di seduta dallo psicologo aperta al pubblico».

“Lunapark” è un brano molto efficace. Voi a quale pezzo vi sentite più legati?

«Abbiamo un buon motivo per essere legati ad ognuna delle 9 canzoni contenute nel nostro primo disco perché in realtà sono comunque la nostra carta d’identità. “Foto di classe” è ovviamente per noi una canzone molto speciale perché è stata quella con cui siamo partiti, quella che ci ha fatto vincere tanti premi, ma potrei dire lo stesso di “Canzone per alex” o di tutte le altre. “Lunapark” è un po’ un discorso a parte forse, è quella che abbiamo suonato meno dal vivo, quella che conserva in sé una violenza e una delicatezza allo stesso tempo che emoziona tantissimo anche noi quando la suoniamo».

Un solo ospite nel disco: Bruno Bavota. Perché avete coinvolto lui?

«Quando provi a ripetere quello che Bruno fa al piano, ti rendi conto che i tasti che lui preme in realtà compaiono solo quando c’è seduto lui! E’ un artista con la A maiuscola, l’unico che conosciamo partito veramente da zero e che è riuscito a diventare un nome internazionale, a riempire teatri in Giappone come negli Usa. Con lui abbiamo un rapporto fraterno e una sincerissima e reciproca stima musicale. Nonostante lui non sia uno che facilmente fa dei feat, sia per Blindur che per Bruno Bavota è sembrato naturale suonare insieme sul disco così come è successo tante volte live; quello che ha fatto a noi è stato davvero un grandissimo regalo».

Di Napoli, la vostra città, cosa c’è in questo album?

«Su tutto c’è l’aria disgraziata della provincia. Noi non siamo assolutamente dei cittadini, le nostre sono storie maledette e meravigliose venute su sotto il cielo inquinato della periferia nord di Napoli, dove tra un disastro e l’altro, succedono anche dei miracoli ogni tanto».

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