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IL TEATRO DEGLI ORRORI «Io non sono nichilista, io voglio cambiarlo questo Paese»

Dici Il Teatro degli Orrori e dici per forza di cose Pierpaolo Capovilla, voce, autore, performer della band. In questa intervista parliamo di così tanti temi – da Pasolini a Papa Francesco, passando per Lenny Bottai, le utopie, il nichilismo – che fate prima a scoprirli che a farveli raccontare.

I primi estratti dal nuovo disco hanno stimolato commenti differenti. Tu sei uno che va a guardare YouTube piuttosto che Facebook per capire l’umore dei fans?

«Sì, tendo a darci un’occhiata distratta, giusto per capire qual è l’atmosfera generale, per capire quali sono i pareri e le aspettative. E devo dire che, tenendo buono ciò che ho letto, il nuovo lavoro è piaciuto. Forse merito di un linguaggio più chiaro e diretto: c’è meno metafora, meno allegoria. E anche la musica è più diretta di prima. In senso generale è un disco bello compatto, con una certa coerenza al suo interno».

Nel disco si parla tanto di politica. Che opinione hai dei nostri politici?

«Chi se ne frega delle mie opinioni sui nostri politici – sorride. Quello che avevo da dire l’ho detto chiaro e tondo in un pezzo come “Il lungo sonno”, questa lettera aperta al Partito Democratico. Nel pezzo si parla chiaro, anzi, si canta chiaro: c’è un gruppo dirigente che si è impadronito del PD, erede del Partito Comunista Italiano di Enrico Berlinguer, del quale ancora oggi ricordiamo la figura moralizzatrice, e lo ha trasformato in un partito di destra, iper neo liberista e legato alle lobby, una sorta di gattopardismo all’italiana. Io ho scritto questa canzone con stizza, con una certa repulsione nei confronti di Matteo Renzi e di tutti quelli come lui e anche con un sentimento di lutto. Ecco, “lutto” direi che è la parola giusta».

Pochi istanti fa hai citato il PCI. Non capisco però se in qualche modo sei nostalgico di un partito che, non dimentichiamocelo, accompagnò alla porta Pier Paolo Pasolini…

«Beh, lo sappiamo bene che negli Anni Sessanta e Settanta i comunisti erano più bigotti dei cattolici. Indubbiamente, l’omosessualità di Pasolini giocò a sfavore del grande intellettuale. Però Pasolini comunista era, ed essere comunisti non significa militare in un partito o nell’altro».

Dai partiti alla Chiesa. Ti piace questo Papa?

«Questo è un Papa particolarmente intelligente, perché Francesco è un conoscitore della psicoanalisi di Jacques Lacan. Se però devo rispondere in maniera chiara alla tua domanda: sì, mi piace moltissimo, assolutamente».

Torniamo a Pasolini, all’omosessualità. Oggi davvero è un tema, quello dell’omosessualità, che si può affrontare senza tabù?

«Il percorso è ancora lungo. Non siamo più negli Anni Sessanta o Settanta, ma il percorso è ancora lungo. Perché lo so anche io che a Roma, ancora oggi, devi stare attento a come ti comporti se sei gay, perché ti pestano, lo trovi sempre il fascista di turno instabile, disgregato, che si sente offeso da due uomini che si tengono per mano o che si abbracciano. Guarda, ricordo io stesso una mia esperienza bellissima. Te la racconto?».

Certo.

«Anni fa un mio caro amico, Ross, venne a trovarmi dall’Australia in un momento di grossa difficoltà: la moglie lo aveva lasciato, non lo voleva proprio mai più vedere, cose che succedono. Ne parlammo, provai a rincuorarlo e quando ci salutammo qui in stazione a Venezia, ci scambiammo un grande abbraccio, come due amici veri che si stavano separando, quindi con amore, e molta gente si scandalizzò attorno a noi. Ricordo ancora certi sguardi di schifo – sorride. Però vedi, quello schifo lì, era lo schifo che avevano loro nel cuore, e non nel cuore io, e neppure Ross. Sono loro e quelli come loro gli sporcaccioni».

Restiamo sul pezzo. Dimmi se l’amore è una buona benzina per fare arte.

«L’amore è assolutamente cruciale nella vita di qualunque persona: artisti, operai, uomini, donne. E parlo dell’amore eterosessuale così come di quello omosessuale. Io sono un uomo molto fortunato, perché nella mia vita sono stato amato fin troppo. Sono sempre stato sfortunato al gioco, perché non c’ho una lira, ma tanto fortunato in amore, fortunatissimo, e ringrazio Dio per quello che ricevo tutt’oggi, a livello sentimentale, e che ho ricevuto. Diciamo che – sorride – sono invidiabile».

Dimmi qualcosa dei giovani d’oggi.

«Sono una categoria sociale fra le più vulnerabili, perché vivono (e viviamo tutti) in una società che trasmette continuamente messaggi sbagliati. Ecco, spero con la nostra musica di stimolare tanti ragazzi a fare una riflessione in più piuttosto che una in meno. Tenendo presente una cosa, però: rockettari siamo, non educatori universitari o maestri delle elementari».

Cose’è la musica oggi?

«La musica oggi non è cultura, è costume, è intrattenimento, non c’è nessun contenuto, non c’è nessuna narrazione, non vengono raccontate le contraddizioni della società contemporanea. Se le canzoni non raccontano il mondo dell’oggi ma continuano a parlarci di stelline e cuori infranti, credo che non serva più a niente la musica. Ecco, noi in questo senso qui, siamo belli seri, ci prendiamo molto seriamente».

Però non pensi che i giovani di oggi tirino su cocaina anche per fuggire da una realtà opprimente? Insomma, potrei anche dirti: “…ma Pierpaolo, che cazzo vuoi? Io “pippo” perché questo mondo mi fa schifo”. Come la mettiamo?

«Ecco, allora sappi che la nostra musica, invece di farti fuggire da una realtà che schifi, ti ci fa precipitare proprio dentro. Meglio di così. Insomma – sorride -, ci finisci dentro una volta per tutte».

Anni fa, in un’intervista che facemmo, fosti molto critico coi social. Oggi la tua posizione mi pare cambiata. E’ così?

«No, non è cambiata la mia posizione, credo siano cambiati i social. Mi pare ci siano molti meno trolls, meno haters, mi sembra stia sfumando quell’impulsività di fondo che spingeva anni fa a dire la propria in un attimo finendo per offendere. Forse perché gli haters di dieci anni fa ora sono cresciuti e si sono resi conto di quanto cazzoni sono stati».

Nel disco compare anche Federico Zampaglione dei Tiromancino. Siete due reduci degli Anni Novanta…

«Sì, ci conosciamo da anni ormai, c’è una simpatia reciproca pazzesca ma non chiedermi il perché. Vedi, io come penso o vedo Federico, mi viene subito da ridere, e non per una sorta di sberleffo, ma perché c’è una simpatia bella fra di noi, una affinità elettiva. Siamo molto diversi: lui è uno splendido romanaccio, io sono veneziano. Nutro tanto affetto per Federico e lo stimo molto, e poi Federico è un chitarrista della Madonna».

Lui è anche un appassionato di boxe. Lo sei anche tu per caso?

«No, io non sono un appassionato di sport, però ammiro tanto i pugilatori, soprattutto ammiro Lenny Bottai, che è un compagno vero. Ti racconto questa su Lenny. Anni fa gli spedii in anteprima il mio disco perché volevo la sua opinione e perché Lenny non è soltanto un boxeur ma un uomo con una cultura incredibile, è l’unico intellettuale dello sport italiano vivente. E mi disse: “…Paolo, tu con questo disco hai fatto qualcosa di eccezionale: hai fatto dialettica, nel senso marxista, a gamba tesa”. Una metafora fantastica».

Concludiamo l’intervista parlando del brano che chiude il nuovo album, cioè “Una giornata al sole”. Lasciamoci con la speranza di quel pezzo…

«Sì, è un pezzo di luce all’interno di un album molto scuro, perché questo è il disco più tenebroso, più scuro, più nero, più intimamente disperato mai fatto da Il Teatro degli Orrori. Quindi avevamo voglia di chiudere il compact con un momento di luce, perché come diceva Pier Paolo Pasolini: “Non c’è mai disperazione senza almeno una fiammella di speranza”. Perché vedi, non bisogna mai arrendersi, bisogna avere sempre voglia di cercare la speranza. Perché se ti arrendi, ti arrendi al nichilismo e noi non siamo nichilisti, io non sono nichilista, io voglio cambiarlo questo Paese, non ci riuscirò mai, ma chi se ne frega, l’importante è il percorso. Io sono un utopista, mi piace pensare che potremmo vivere tutti in un mondo socialista, nel segno della giustizia e dell’equità, tutti quanti. Non ci arriveremo mai, ma a me non frega nulla, l’importante per me è essere sempre spinto verso quell’obiettivo, perché coincide con la mia vita. Io amo lottare, credo che lottare significhi vivere in modo più degno, più interessante, più avvincente, più divertente, tanto per capirci».

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