THE BASTARD SONS OF DIONISO «Noi siamo indipendenti da tutto e apparteniamo solo a noi stessi»
Si chiama “Cambogia” il nuovo album di inediti dei The Bastard Sons of Dioniso, uscito per l’etichetta Fiabamusic il primo dicembre scorso. “Cambogia” è arrivato dopo sei dischi, un EP, quasi 600 concerti e la presenza a vari festival italiani. Di mezzo anche una partecipazione a “X-Factor”. «“Cambogia” – spiegano – è sinonimo di caos. “Cambogia” è una forte metafora per descrivere la guerra che ognuno conduce verso se stesso. Quella che, se uno vince, segna l’esistenza». Ma “Cambogia” altro non è che il nome con cui Gianluca Vaccaro, tecnico del suono e produttore di molta della bella musica italiana, da poco scomparso, distingueva sorridendo gli artisti più confusionari o i prodotti musicali più esplosivi e disordinati.
Partiamo dall’intro della title track: ricorda moltissimo quello di “Fall Down” dei Toad The Wet Sprocket. E’ casuale la somiglianza fra i due brani?
«Si, la somiglianza è casuale, io personalmente (sono Jacopo) non conoscevo il gruppo. Fa piacere perché è bello il pezzo e loro sono molto bravi. Pensiamo sia anche abbastanza normale trovare armonie simili tra le canzoni, soprattutto con il giro armonico di cui stiamo parlando. Dà il senso di introspezione western che stavamo cercando. Ci hanno detto che assomiglia anche ad un brano di Ramazzotti, curioso»
Se “Cambogia” “…è una forte metafora per descrivere la guerra che ognuno conduce verso se stesso”, alla fine di questa guerra personale cosa c’è? Qual è, insomma, il contrario di “Cambogia”?
«Penso che il contrario di questa visione di “Cambogia” sia una pace molto strana, dove il tempo non trascorre e dove niente è in divenire. Non è tutto rose e fiori nella vita vera, non si può smettere di soffrire e di lottare in qualsiasi momento. Anche se c’è chi lo fa. “Cambogia” è questo, quello spirito che anche quando non c’è più speranza ti nobilita e sospinge pronto ad affrontare qualsiasi battaglia, perché la guerra non cambia mai. E non tutte le parole hanno un contrario».
Il disco sembra nato per essere suonato dal vivo. E’ davvero così?
«Le nostre canzoni sono libere, nei nostri limiti. Le catene sono molte, sono i compromessi di gusto e di scelte che si fanno prima e nel momento della creazione. Sono i limiti che ci siamo posti per poter essere liberi di fare un bel live nel nostro modo. In tre, con le voci e gli strumenti che abbiamo a disposizione. Live si può goderne di più perché, oltre a sentire, si può vedere il lavoro del singolo e capire come sono suddivisi i ruoli sonori e canori, cosa che ascoltando il disco è più difficile cogliere».
A distanza di anni, cosa ricordate dell’esperienza a “X-Factor”?
«E’ un bel ricordo, a volte ci tornano in mente aneddoti, avventure ed incontri di quel periodo, cose tipo il compleanno della Ventura. E ci facciamo grasse risate».
E’ un percorso che consigliereste a una band emergente?
«Lo consigliamo a chi vuole farsi un giro, vivendolo per quello che è: un gioco».
Se foste in gara oggi, da chi vorreste essere capitanati fra Agnelli e Fedez?
«Se fossimo ad “X-Factor” oggi saremmo i giudici».
In più di 10 anni di attività vi siete confrontanti con il mainstream e conoscete benissimo la scena indipendente. Cosa vi piace e cosa non vi piace dei due ambiti?
«La differenza è il network che i due sistemi utilizzano: uno usa le radio e le tv per la pubblicità, l’altro riviste specializzate, concerti, social network e passaparola. Entrambe le scene si autoreferenziano con i mezzi che hanno. Noi siamo indipendenti da tutto e apparteniamo solo a noi stessi, non per essere contro, ma perché è sempre stato così».