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DIEGO MANCINO «Non scrivo perché sono arrabbiato o innamorato, scrivo per avere la misura di chi sono»

Di solito ci vuole sempre un’introduzione per presentare un’intervista o un determinato artista. In questo caso crediamo sia del tutto superfluo spendere tempo a spiegare Diego Mancino. Molto meglio correre a leggere le sue risposte, estremamente generose di contenuti e con prese di posizione chiare e puntuali. Insomma, niente fuffa, come la musica del cantautore milanese.

Stai lavorando a un nuovo disco. A che punto sei?

«Sì, sto preparando quello che sarà il prossimo disco, con la produzione di Dario Faini. Si tratta di un album di canzoni che sento la necessità di cantare. In questi ultimi anni l’idea di fare un disco mi è parsa veramente una follia, dato che oramai esiste quasi solo la televisione a creare il poco interesse che può esistere intorno alla musica, ma come dicevo, io sento la necessità di dire alcune cose, di cantare certe canzoni. E’ qualcosa che ho nel sangue, qualcosa da cui non posso nascondermi. Io sono le canzoni che scrivo. Spero di poter realizzare un disco che possa comprendere non solo la musica, un progetto ambizioso che richiede molta pazienza e molta pianificazione».

Ci saranno ospiti?

«Ospiti? Chissà. Molti incontri di questi anni – spiega Diego Mancino – sono stati importanti, scoperte anche umane, sarebbe bello condividere con alcuni di loro delle canzoni, ma per il momento non potrei dirti altro».

Anni fa ti definisti un “confidential punk”, un modo per non rinnegare il tuo primo amore (il punk) e per rimarcare l’evoluzione del tuo percorso. Oggi ti ritrovi ancora in quella definizione?

«Sì, certo. La musica punk mi ha dato il coraggio di dire quello che penso, è stato un momento nella mia vita significativo, pieno di rivendicazioni e di eccessi, ma certo molto formativo, una scuola da tutti i punti di vista. Mi ha addestrato alla curiosità. Mi ha fatto credere in me stesso e nella mia fantasia. Il punk in fondo è un’attitudine che aiuta molto le persone fragili. E’ una corazza. Io oltre la corazza sono una persona molto disponibile se non perdo il controllo».

I cantautori sono stati una voce fondamentale per la cultura italiana, e se ci sono oggi millantatori di ogni tipo è solo perché viene data da giornalisti e sedicenti tali, la credibilità che in altro modo non avrebbero

Oggi un po’ tutti sono cantautori. Per assurdo lo sono anche quelli che non scrivono canzoni. Che strada ha imboccato a tuo avviso il cantautorato italiano in questi anni e chi ha raccolto l’eredità dei vari De Andrè o Tenco?

«A volte è davvero sconfortante, i cantautori sono stati una voce fondamentale per la cultura italiana, e se ci sono oggi millantatori di ogni tipo è solo perché viene data da giornalisti e sedicenti tali, la credibilità che in altro modo non avrebbero. Io credo che scrivere canzoni e cantarle implichi una ricerca personale nello stile e nelle tematiche, una presa di posizione e una certa onestà intellettuale. Ci sono magnifici esempi anche oggi di maestri ed esempi che brillano nella scena. Mi vengono in mente Daniele Silvestri, Francesco Bianconi e Rachele Bastreghi dei Baustelle, Cesare Basile, Dimartino, ma non bisogna dimenticare chi dall’interno di una band scrive canzoni anche come autore. E allora Manuel Agnelli, Giuliano Sangiorgi, possono essere considerati dei maestri davvero straordinari. E non dimentico la scrittura così poetica di Manupuma o Carmen Consoli. Insomma, direi che la scena è fatta di ancora tante voci e tante bellissime penne. La possibilità di far girare le nostre canzoni dipende tanto anche dalla curiosità di chi ascolta e dagli spazzi che ci date».

Come nascono le tue canzoni? Hai un particolare stato d’animo (o luogo) che asseconda le parole a uscire?

«Scrivo tutti i giorni da molti anni, lo faccio a casa ma spesso scrivo totalmente rapito quando sono in giro, seduto a qualche tavolino, sui treni o in aereo. La musica poi nasce  qui a casa mia, da solo o spesso con Dario Faini col quale ho una fantastica connessione artistica. Un posto che mi ha ispirato molto in questi anni è stato Berlino, dove ho lavorato per registrare canzoni sempre insieme a Dario e posso dire che è stata una esperienza fuori dal comune, libera e creativa come nei migliori sogni».

Perché scrivi, Diego? Te lo sei mai chiesto?

«Non scrivo perché sono triste o arrabbiato o innamorato, scrivo per superare quei sentimenti. Scrivo per sentirmi reale, per avere la misura di chi sono e cosa vedo. Scrivo perché sono quello che canto».

E’ da un decennio abbondante che in ambito cantautorale scrivi e canti cose di assoluto pregio. Cos’è mancato, finora, a Diego Mancino come interprete per raggiungere il largo pubblico? Una promozione adeguata? Un palco come Sanremo?

«Ho sempre fatto molti errori sia per mie colpe sia perché mi sono spesso affidato a persone sbagliate. I miei dischi a volte sono sopravvissuti a tutte queste difficoltà, dimostrandomi che gli errori possono fermare gli uomini ma non certo le canzoni, che grazie a Dio sono sopravvissute alle mie scelte suicide. Sanremo è un palco che rispetto, non so se mai nella mia vita ci salirò, nemmeno il Premio Tenco mi ha mai dato credito. Io però sono certo che Luigi ascolterebbe i miei dischi e sarebbe felice succedesse. Forse la verità è che sono sempre stato un outsider e sempre pochissimo allineato ai gusti delle scene musicali».

Che idea hai delle scene?

«Mi sembrano misere, legate a stilemi vecchi e svuotati di qualsiasi legame con la società o con la poesia. Insomma, musiche che mi lasciano vuoto, non mi insegnano nulla, non mi danno parole d’ordine, non mi fanno sognare».

Se hai 16 anni, sei in cameretta ad ascoltare musica e tua madre ti dice di alzare il volume perché la canzone le piace, beh c’è un problema!

Da sempre l’hip hop ti affascina. Per certi versi, anche se è rap, parliamo pur sempre di cantautorato, giusto? Chi sono gli artisti che in questo ambito ti piacciono?

«In Italia il rap per me è Fabri Fibra, Salmo e poco altro. E loro comunque non si farebbero mai chiamare cantautori, credo. Rap. Fanno rap. Il rap non vuole essere altro che rap, e se devo dirla tutta, quando certo rap italiano gioca a fare pop a me non piace. Se hai 16 anni, sei in cameretta ad ascoltare musica e tua madre ti dice di alzare il volume perché la canzone le piace, beh c’è un problema!».

Restando in tema, la tua città è cambiata moltissimo in questi decenni: da patria della canzone d’autore a epicentro del rap italiano. E’ un’altra Milano quella di oggi oppure è sempre la stessa Milano ma con un vestito (musicale) differente addosso?

«Milano è stata anche una rock city fantastica negli Anni ’90. Resta la città più vitale di questo Paese. Io credo che qui a Milano ci sia voglia di creare e energie per farlo, manca l’appoggio delle istituzioni molto spesso, ma come per le canzoni, Milano siamo noi, quindi noi dobbiamo darci da fare e fare del nostro lavoro la trincea culturale del Paese. Credo che Milano sia una città resistente».

Milano oggi è Salvini…

«Milano non è di Salvini. Milano sono io. Io e tutti quelli che si danno da fare per tenere una luce accesa nel buio di questi anni di paura e ignoranza. Milano sono i miei fratelli che scrivono, dipingono, producono, studiano. Noi siamo Milano, e noi siamo qui, vivi, attivi, seri come non mai».

La musica e la poesia mi hanno salvato dalla miseria emotiva di questi anni dove sembra che bastino il sarcasmo e l’ironia per far dimenticare il vuoto cosmico di certe persone

Hai scritto per tanti in questi anni. C’è invece una canzone (di un altro artista) che avresti voluto cantare tu? Magari perché la senti/sentivi in perfetta sintonia con il tuo universo?

«Certo, ce ne sono tante ma per citare solo gente viva, Agnelli e Sangiorgi hanno scritto più di una canzone che avrei voluto cantare».

Titoli?

«”Ragazzo mio” di Luigi Tenco è una delle mie preferite di sempre, ma anche “Siberia” dei Diaframma!».

La musica ti ha dato tante soddisfazioni, ma c’è qualcosa che ti ha tolto?

«Non c’è nulla che la musica mi abbia tolto. Io grazie a lei ho imparato chi sono e cosa desidero. Mi ha fatto sentire un uomo e un bambino, mi ha dato una visione e la fortuna di imparare sempre qualcosa. Non c’è nulla che che abbia voluto indietro. La musica, le poesia, sono la cosa sacra che mi ha salvato da tutto il male del mondo, dalla solitudine e dalla povertà, dalla miseria emotiva di questi anni dove sembra che bastino il sarcasmo e l’ironia per far dimenticare il vuoto cosmico di certe persone. E’ una miniera la musica. E scavare nel profondo è questione di scelte».

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