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GHEMON «Certo che è bello essere felici, ma è una lotta quotidiana»

Mezzanotte” è il nuovo disco di Ghemon ed è un album coraggioso, carnale, fisico, la musica come terapia per riemergere da momenti difficili, un bilancio sincero nonostante i successi e gli eccessi, un’autoanalisi dell’uomo Gianluca prima che dell’artista.

Cresciamo con l’idea che a Mezzanotte si perdono solo le scarpette di Cenerentola. Tu nella tua favola di Mezzanotte cos’hai trovato e cos’hai perso?

ghemon mezzanotte«Ho perso pezzi della mia vita, vecchie convinzioni, amori o presunti tali, sicurezze e anche alcune fragilità. Ho fatto ordine e ho cambiato direzione a molte cose della mia vita. Ed è ricominciata una nuova fase, come potrebbe succedere a tanti. Forse per questo le persone si rivedono così tanto in questo disco, anche se è una mia soggettiva».

Da una tua recente intervista: «La verità è che l’anno scorso proponemmo per il festival “Un temporale”, che va in radio adesso. Ma dissero che non l’avrebbero nemmeno ascoltata… Ci rimasi male». Perché una risposta così netta e Sanremo resta sempre un obiettivo?

«Immagino ci siano varie motivazioni: gli ascolti e la rassicurazione degli ascoltatori in quel Sanremo venivano sicuramente prima delle proposte musicali. Forse avevano già fatto le loro scelte e le avrebbero cambiate solo avendo un grosso nome da rotocalco: nello spettacolo televisivo era più spendibile di un bel pezzo e di una voce nuova. Non escludo niente per il futuro, ma il Festival oggi non è una mia priorità».

Alcune tue canzoni sono facilissime da cantare sotto la doccia, altre sono un… tormento per chi ha velleità canore. Ad esempio “Bellissimo” è un brano veramente, veramente duro, quasi impossibile da replicare sotto la doccia. E’ stato facile da registrare e ci sono stati brani che in studio ti hanno dato il tormento in fase di registrazione?

«Devo dire che le tonalità dei pezzi sono spontaneamente tutte molto più alte del passato, ho lavorato tantissimo in fase di registrazione, cantando e ricantando, grazie anche alla supervisione di Beatrice Sinigaglia, la mia coach. Magari lei, quando notava che insistevo troppo su una cosa che non veniva, mi distraeva o mi dava un consiglio pratico, su come pensare alcune note o anche sul pronunciare una parola diversamente. Mentre si registra per ore e ore di fila, con tematiche così personali, entri in una specie di trance. Un orecchio esterno è fondamentale».

Mi incuriosisce la tua stanza di casa piena di scarpe che chiami “la stanza delle bambine”. Si può trovare l’ispirazione in una stanza piena di silenti scarpe adagiate nelle loro scatole?

«Ci sono colori, forme, c’è un ordine e ci sono anche delle storie dietro a quando hai indossato o comprato un paio speciale: sono tutte cose che possono attivare la fantasia!».

E’ una forzatura dire che il tuo percorso ricorda un pochino quello di Nesli?

«In questo momento, i paralleli tra chi prima faceva rap e ora è anche un cantante si sprecano. Io, Nesli, Coez e se vuoi metterci pure Neffa, siamo arrivati qui con percorsi, motivi, stili, contenuti e sviluppi diametralmente opposti, perciò non ci vedo proprio nessuna analogia. Mi sento unico e lavoro per questo, qualsiasi altro nome è molto lontano dalla mia concezione di musica».

Sulla tua depressione sei stato molto sincero e schietto nelle ammissioni pubbliche. Chi però non si chiama Ghemon e non ha una passione forte ai cui aggrapparsi, come ne può uscirne? Bastano i medicinali? L’amore può essere la sola medicina?

«Quando mi sono confrontato con la depressione nella mia vita, non ero altro che Gianluca. Lui va dal dottore, lui fa la spesa, ad esempio. Tutti abbiamo un hobby o qualcosa che ci appassiona, che ci può distrarre e dare energia positiva, quello sicuramente è un aiuto. Per il resto, non è solo una costante tristezza di un periodo, ma è qualcosa di cui ci si deve informare, parlandone con un dottore, confrontandosi con uno psicologo e ovviamente poi mettendoci del proprio. Aldilà del lavoro che si fa e del ruolo che si ricopre, poi abbiamo dei momenti in cui stiamo con noi stessi e sono quelli in cui dobbiamo essere consapevoli, anche solo riconoscendo che qualcosa non va e che abbiamo bisogno di aiuto. Io ho solo provato ad essere un “megafono” condividendo la mia esperienza».

Leggendo diverse tue interviste, appari oggi molto rilassato, quasi felice. E’ bello essere felici oppure per scrivere belle canzoni ci vuole anche una fortissima malinconia?

«Certo che è bello essere felici, ma è una lotta quotidiana. Sono contento di arrivare stanco alla sera e di aver fatto tutto il possibile per migliorare. Per scrivere canzoni belle c’è bisogno di aver dietro una grossa esigenza comunicativa. Ti deve scoppiare nel cuore e nella pancia la voglia di dire qualcosa. Non mi piace più molto l’idea che gli artisti per creare devono stare male; piuttosto è il nostro soffermarci su alcune sfumature del mondo che a volte ci porta a viaggiare con la mente più di un’altra persona, con le dovute conseguenze».

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