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GIANCARLO ONORATO «Io non faccio dischi per convincere o per intrattenere»

Partiamo da “Quantum”, il tuo ultimo lavoro. E’ un disco che esprime atmosfere solenni, porta con sé un’epica che colpisce al primo ascolto. Da quali letture, incontri o eventi è stato ispirato? Inoltre come mai ci sono voluti tre anni di lavorazione?

«La forma e il contenuto si appartengono, si compenetrano. Credo nasca così il trasporto epico. Ho sempre pensato che per essere un musicista si debba prima di tutto essere creature veramente vive in tutto e per tutto. Io non faccio dischi per stupire o consolare, mentre vedo e sento che molti colleghi assai affermati e con carriere da record, proseguono a lavorare solo per il consenso o per blandire il pubblico. Temo sia l’unica cosa che taluni sanno fare, assai probabilmente. Io non faccio dischi per convincere o per intrattenere, per divertire o per essere il mostro di turno che tutti vorrebbero accarezzare perché piacevolmente spaventati dalla sua eccezionale ordinarietà. Compongo e poi affino delle opere attraverso le quali mi indago. La mia vita le attraversa con gli effetti su di me degli eventi che mi modificano. Se lo faccio sul serio, chiunque vi si imbatterà per scelta o per caso, si sentirà a propria volta indagato, ma non in senso invasivo, bensì libero. Come davanti ad un paesaggio che ci riassume. Come davanti al mare. Sentiamo di essere in quella cosa che ci parla una lingua sconosciuta eppure così intimamente nostra».

E’ questo il solo compito di una canzone?

«Sì, parlare alla grande moltitudine di elementi che si celano in una sola persona. Chi ascolta le mie canzoni per davvero, percepisce anche che non vi è posa e neppure eccessiva pesantezza, sente che io non mi prendo sul serio e che non sto vaticinando. Faccio quella cosa con la naturalezza con cui ti parlerei di persona. Solo che è un’opera. E quando ti chiudi in uno studio per uscirne dopo un tempo x, di una sola cosa sei consapevole: che anche fosse una sola persona ad ascoltare ciò che hai sigillato in quella certa forma, ciò sarà per sempre, e per sempre tutti, oggi e domani, ti vedranno così, e tu sarai per loro quella cosa. Ciò carica di una responsabilità tale rispetto a se stessi e poi rispetto a chiunque possa voler accostarsi alle tue idee, da fare di un “album” un momento di grande officio, in cui si forgia qualcosa che otterrà una monumentalità intima, e sarà la roccia d’animo con cui attraverserai il tempo, almeno per te stesso, se anche tutti dovessero ignorare il tuo lavoro. Questo basta a fare dei miei dischi un laboratorio di ricerca di quel rapporto sottile tra la forma e il contenuto, e quanto tempo occorra non è importante. Ci vuole il tempo che ci vuole. Importante è riconoscersi ancora tra venti o trent’anni in quelle tracce, e sapere che lì ci sei tu, come ci sono pezzi significativi della tua vita in cui altri potranno forse ritrovarsi, ed è importante sentire che questo artificio sensibile può rappresentarti in modo almeno sufficiente verso chiunque altro. Un disco è un fatto intimo e personale che diviene in qualche misura un fatto di dominio pubblico. Bisogna meritarsi questa arroganza di scoprirsi in pubblico».

Dimmi dell’ispirazione…

«Più difficile dire che cosa ispiri esattamente. Andiamo dagli ascolti maturati nel tempo, e che col tempo divengono una miscela tua, personalizzata, metabolizzata, alla lettura di una frase, fino agli sguardi, agli effetti prodotti da un suono su di te. Più spesso da una sinestesia: un passaggio tra un segnale ed un altro, un colore che diventa suono, il passaggio di un brano altrui che diventa uno scenario che comporrai tu. E così via».

Alcune atmosfere “rotonde” fanno correre la mente a certe cose dei Marlene Kuntz. Il tempo passato assieme a Godano in tour e non solo ha ispirato entrambi? Avete scoperto, assieme, cose nuove?

«Trascorrere del tempo creativo insieme produce sempre dei risultati. Quando ci si confronta davvero, onestamente e in modo sereno, qualcosa di noi lasciamo sempre e qualcosa cogliamo degli altri. Mi piace pensare che ci siamo influenzati prima di tutto come persone. Tanto io quanto Cristiano siamo persone semplici, in fondo, ma consapevoli anche di voler fare della propria complessità un elemento di scambio e di confronto. La semplicità è sempre molto complessa».

Quando hai iniziato tu era normale per un adolescente esprimere la propria rabbia con il rock, ora ha preso campo il rap come strumento di espressione. E’ un linguaggio che ti incuriosisce, è un genere che ti piace?

«E’ una domanda che richiede una risposta articolata. Ciò che non cambia tra linguaggio rock e linguaggio rap, sono due elementi: entrambi sono espressione di origine popolare, ed entrambi, dalle nostre parti, sono fenomeni di derivazione. Perché il nostro è un Paese anticamente colonizzato, come ben sappiamo. Io però ho avuto la fortuna di fare la mia comparsa espressiva in un periodo storico in cui il rock aveva già segnato profondamente il Novecento e la musica in tutte le sue dimensioni, il suo brevetto dunque si apprestava a scadere, facendo sì che anche chi fosse abitante di latitudini non originariamente vicine o connaturate con il rock, potesse metabolizzarlo e farne suoi almeno gli assunti di base. C’è voluto comunque diverso tempo perché si avesse qualcosa di sensato da dire, e come si vede molti cadono e insistono tuttora nello stilema, ormai privo di significato. Se qualcosa diviene un marchio, uno standard, la sua importanza certo non viene meno. Tuttavia alzarsi tra la folla, a tempo abbondantemente scaduto, e dire: “…vi faccio sentire io qualcosa di nuovo”, per poi ripetere le stesse cose che sono state dette prima, e meglio, non fa fare una gran figura al disinvolto esibizionista di turno».

Dimmi del rap…

«Sentivo parlare di rap già nei primissimi Anni Ottanta, quando ci arrivava quasi esclusivamente come un fenomeno di cronaca. Il tal rapper ha ucciso quello o è stato ucciso dall’altro, eccetera. Occorre riconoscere che se qualcosa nato come un’esposizione ritmica di parole con una metrica precisa si assume pure l’onere di significare ed esporre contenuti di rottura e di contrasto allo status quo, è molto buono come proposito, molto. Ma quando scende in campo l’equivoco dello stilema, quella tendenza cioè a rifare più che altro cose viste e fatte da altri, condendole alla bell’e meglio a seconda della destinazione che vorrai darvi, è un problema. E da noi provinciali accade di continuo. In generale temo che chi “ascolta” rap, e in particolare rap italiano oggi in un’età compresa tra i 12 e i 25 anni, difficilmente abbia una visione ben definita di ciò che sta fruendo, di quali siano le origini e il significato di tale linguaggio e di dove si possa provare a portarlo con intelligenza. Mentre in grande maggioranza si starà solo crogiolando in una forma estetica che ha imparato ad apprezzare come divertente, attuale, e soprattutto elemento di condivisione e socializzazione. I fattori che scatenano l’adesione ad un certo linguaggio, in giovinezza, a parte speciali cerniere della storia, sono in prevalenza motivazioni di natura psicologica e generazionale. I canti intonati dai giovani partigiani sulle montagne durante il secondo conflitto mondiale possedevano una valenza politica e storica assai più marcata, se proprio vogliamo fare dei confronti. Certo che era un’epoca diversa, ma chi li cantava era consapevole del pericolo di sostenere determinate idee, e faceva continua esperienza di intervento personale per un cambiamento delle cose. Difficile sostenere qualcosa di simile nel caso della fruizione del rap da parte di adolescenti che a malapena conoscono il nome dell’attuale presidente del consiglio e magari stanno sotto l’ala paterna/materna sino alla soglia dei quarant’anni».

Mi piace il concetto, prosegui pure…

«Voglio solo dire che un legame tra “musica” e “rottura degli schemi” è qualcosa di un po’ più serio e articolato. Ed è influenzato dal periodo storico in cui si esprime. Ora noi siamo in piena epoca del “vale tutto, l’importante è che piaccia”. Non intendo sminuire un linguaggio, né considerare gli appassionati di rap meno validi di coloro che sono vicini ad altre forme, bensì mi pare più interessante notare che “una forma” se è fruita solo in quanto tale, è e rimane una forma, un cliché. Non è rappare, non è suonare una chitarra distorta, non è alzare un pugno, tatuarsi o anche solo indossare delle orecchie da gattino, che mi significhi necessariamente un’autentica capacità di interpretare il proprio tempo. Non credo inoltre che esista una “forma espressiva” che possa più di un’altra rappresentare elementi di intervento sulla società. Vi sono canzoni dolorose o rabbiose della prima produzione blues che sprigionano un profondo attacco agli orrori della società come ad esempio la discriminazione razziale, senza per questo ricorrere necessariamente ad un cliché, ma capaci di “inventare” un modo. Tenco è vissuto come un cantore doloroso da chi ha cinquant’anni, e come un barboso antico da chi ne ha 18. Eppure un solo verso di Tenco ha una valenza di rottura mille milioni di volte più potente di gran parte delle rime che io personalmente ho occasione di ascoltare. Naturalmente, resto in fiduciosa attesa di ascoltare elementi di intelligente trasgressione, e non dico che non ve ne siano solo perché a me non capiti di ascoltarne. Per cui direi che quando si tratta di aderire fessamente ad un cliché solo perché è “del tuo tempo”, il fatto di smaneggiare un riff di chitarra distorta su una vetta di montagna coi capelli al vento, equivale a gesticolare col berretto di traverso bofonchiando più o meno in rima le prime cose che ci sono venute in mente. In entrambi i casi occorre andare più in là, in entrambi i casi si può e si deve fare. Non sono il tipo di persona incapace di apprezzare un tatuaggio solo perché non se ne farebbe mai fare su di sé. La penso nello stesso modo rispetto al rap: è qualcosa che non mi rappresenta, ma di cui so apprezzare il miglior spunto. Per non far torto a nessuno, dirò che anche coloro che sono dediti fessamente al jazz mi appaiono in genere anche più comici dei ragazzi di una volta col chiodo o di quelli ora col tatuaggio sul collo e la rima di battaglia rivolta alla fidanzatina, con immancabile manina storta. Finiscono in un modo o nell’altro per scivolare tutti, in un modo o in un altro, nella categoria dei “bravi ragazzi” semplicemente perché lo sono, e hanno provato a uscire dalla cameretta per fare gli impegnati. Per fare qualcosa di serio con la musica, non bisogna essere né diventare mai dei “bravi ragazzi”».

Qual è il ruolo dell’artista oggi che sono crollati tantissimi punti di riferimento e in un momento storico in cui la politica non ha credibilità?

«Se la domanda di prima prevedeva una articolazione, questa richiederebbe un trattato. L’artista era ed è l’unico vero depositario del significato, se è artista, e se lo è, è anche libero da ogni timore di esserlo. E’ un ruolo necessario più di quanto lo sia lo specialista di una qualunque disciplina. Più di un politico, un artista smuove incrostazioni, e spesso neppure fa in tempo ad accorgersi di ciò che ha contribuito a cambiare. L’artista non ha generi, non ha età, non legami obbligati, né appartenenze politiche o favori, è uno che deve saper camminare sul margine di un precipizio. Uno che sa di correre dei rischi di continuo. Dopodiché è assai diffusa la retorica dell’essere artista, nonché la posa di essere artista, mentre un artista autentico ha una tale valenza politica da risultare sempre scomodo, quindi utile. Qualcuno che dica di sé “sono un artista” per poi finire per spacciare in nome del cambiamento la propria ricetta vendendola a caro prezzo, non è artista ma un abile manipolatore».

Ce ne sono tanti di artisti del genere?

«Il mondo pullula di questi finti artisti. Al punto che definirsi artista non ha più alcun significato, tanto è stato inquinato e strumentalizzato, abusato il termine. John Lennon è stato a suo modo uno dei più importanti uomini politici del suo tempo, come è dimostrato dalla sua stessa tragica fine, la stessa toccata ad altri giusti uomini politici, dopo essere stato un trascinatore di folle in base a principi universali e fuori da ogni retorica. Lennon credeva in quello che diceva, e aveva intelligenza e lucidità sufficienti per capire il proprio ruolo e vedersi al di fuori di questo. Questa consapevolezza ha fatto di lui un pericolo vivente per coloro che traggono profitto dal mantenere le grandi masse umane in condizione di subalternità. L’artista invece, se è vero, non ha ragioni di interesse personale per parlare e dire le cose come stanno. Almeno quanto un filosofo autentico, anche qui, da non confondersi con coloro che recitano in pubblico la particina dell’uomo saggio e poi in privato sono dei mostri di cinismo e di astuzia di accaparramento. Bisogna diffidare da chi diffonde proclami di bene come da coloro che sbandierano ai quattro venti l’artisticità come formula da seguire. Quella è roba pari alla pubblicità di marchi che, per venderti un’automobile da 40.00 euro, ti vengono a raccontare che devi acquistarla perché sei libero, sei indipendente, sei uno che ragiona con la propria testa: intanto comprati questa, poi si vedrà. In tutti i totalitarismi sono più avversati coloro che muovono idee in modo sottile e profondo di coloro che tentano una via “politica” al cambiamento. Perché la politica è un avvenimento personale e intimo, è il riconoscimento delle aspirazioni e di bisogni autentici, ed è il tentativo di dare a più persone un’intesa armonica. Questi sono esattamente i compiti di un artista, non certo quelli di un politico, che se ne è appropriato indebitamente, il quale parla sempre per interesse personale o di parte, e negherebbe ogni evidenza pur di sostenere la propria causa economica e per prevalere sulla concorrenza. Come scopo un politico ha il più delle volte quello di accarezzare gli interessi delle categorie che gli permetteranno una vita comoda e ben servita, agi, consensi, potere. Tutti sentimenti miseri di uomini piccoli o poco cresciuti. Le epoche viste dalla parte delle lacune umane, si assomigliano tutte».

Davvero?

«Se sfogli un giornale a caso del 1958 o del 1985, troverai similitudini, osservazioni, depravazioni, prevaricazioni, invasioni, esplosioni critiche e difficoltà che, con differenze solo epocali, sono identiche a quelle che soffriamo oggi. Ma chi è poi questo artista? E’ facile che se tu lo incontri, non lo riconoscerai subito. Non lo riconoscerai se sei abituato a chi fa sfoggio altisonante dei propri meriti e risultati, a chi ha una grande organizzazione alle spalle e se sei abituato a ritenere fama sinonimo di valore. Più difficile ti sarà vedere quella persona che sa essere persona, sa essere obiettivo rispetto a se stesso e agli altri, sa ascoltare con la stessa intensità con la quale saprà parlare quando sarà il momento di farlo. Farai fatica a vedere un individuo che non ha mai smesso di crescere e di imparare anche dai propri errori, che non teme di essere tagliato fuori solo perché nessuno avanza scambi commerciali in suo favore, come non teme la propria vulnerabilità, ma semmai la elegge a termine di scambio e di scoperta. In definitiva è assai improbabile che tu ti accorga di essere a contatto con uno di questi alieni, se mai ti toccherà».

Manuel Agnelli, in un’intervista di pochi giorni fa, ha detto: “La musica italiana in generale? Mi fa cagare”. Tu che conosci benissimo l’ambiente, ti ritrovi in questa affermazione?

«Pur non usando le stesse immagini, diciamo che non mi è possibile nel suo insieme trovarla meno che brutta, meno che inutile. Mi sentirei però di aggiungere che gli effetti lassativi della musica italiana in genere hanno delle precise ragioni, e quelle vanno conosciute, o questa ci darà sempre problemi intestinali. Le ragioni sono assai simili a quelli che rendono disastrosa la vanità della classe politica: interessi personali che travalicano il piacere e il gusto di scoprire le cose per sé e per gli altri, e di divulgarle. In più credo occorra fare una precisazione: parliamo di musica popolare. Pop. Ma cosa abbiamo attualmente in fatto di musica popolare ad uno sguardo sommario? Uno scenario composto ancora da una discreta compagine di antichi tromboni che riescono a spuntarla sulle classifiche (ammesso sia sempre vero), ripetendo sempre le stesse cose, affiancati in ultimo da finti indipendenti, ragazzetti, ragazzoni o exragazzi che cavalcano un consenso regalato loro da un pubblico troppo ignorante e superficiale per fare testo. Certo, gli ascolti e i numeri da classifica non richiedono competenze di sorta. Chiunque ti dirà che il successo è successo, e stop, non si discute. E’ un risultato tecnico, e questo ci basta, purtroppo. Ti sembra un buon quadro? Non lo è. Chi può negarlo? Chi ha interessi e ne trae profitto, come dalle speculazioni edilizie o da altri raggiri che arricchiscono pochi a danni di molti. L’unica differenza con quelle magagne è che questa colpevole omissione, che è in fondo del tutto simile a un raggiro, non è considerata un reato. Però si piange l’impoverimento del Paese, e quando dico impoverimento, mi riferisco certo alla famosa deriva generale, ma più in particolare intendo dire che senza una crescita personale non vi può essere neppure crescita economica. Però si finge di non saperlo».

Cosa faresti?

«Punterei a una informazione autentica, centrale, non prezzolata, basata su meriti veri, e seriamente impegnata in una ricerca di valore in ogni campo. Limiterei in tal modo l’egemonia dell’emittenza privata radiotelevisiva, ormai formata da mastodontici apparati e diciamo automaticamente antidemocratici, che fanno strazio del gusto e della conoscenza dell’ascoltatore medio, riducendolo a un consumatore. Questi, facendo una promozione smisurata solo di certe proposte, in base a vantaggi propri, possono infischiarsene bellamente di quanto vadano ad inquinare e ad impoverire il gusto e la conoscenza collettiva. Sono privati, fanno del semplice “intrattenimento” quindi si inalbereranno sul diritto di fare ciò che credono in un mercato libero. In più, se interpellati sull’argomento, accamperanno sempre una presunta e liberissima proposta di qualità, e come prova di bontà del proprio operato indicheranno le vendite e il gradimento registrato. Questa mentalità che premia solo la quantità di diffusione dimenticando il significato è la vera causa del nostro progressivo retrocedere, anche economico».

“Quantum” è un disco… gentile, i toni sono spesso delicati e le atmosfere sono notturne. Viviamo un momento storico in cui la gentilezza può essere una risorsa oppure bisognerebbe più battere i pugni sul tavolo e rovesciarli?

«Come credo si evinca dalle mie interviste, “Quantum” mi assomiglia: sono una persona che arriva gentile, ma dotato di una profonda ferocia verso ciò che rende storto il mondo. Le mie canzoni, così come lo sono io, sono tanto politiche e trasgressive, proprio perché io non vengo ad accampare retorici slogan che attirano i babbei. Come qualcuno ha osservato, le mie canzoni sono un buon vino corposo, che arriva dolcemente, per poi dare alla testa quanto basta per far dire le cose che altrimenti non si direbbero mai. Mi sembra un buon risultato politico».

Hai una brillante carriera all’attivo. Oggi cosa ti emoziona del fare musica?

«La scoperta continua, e il fatto che questo mestiere, come tutte le cose che contano, si genera per contatto e per desiderio, e non finisce mai».

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