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MARCO PARENTE «Presto tireremo fuori il peggio di noi»

Cinque domande a Marco Parente sul suo nuovo disco “LIFE. Ma sugli argomenti – a quanto apre – non ci abbiamo preso granché, anzi, è stata matita rossa su quasi tutte le domande. Lo score recita 4 ko su 5 tentativi, ma abbiamo evitato il “cappotto” (o la Caporetto, fate voi) soltanto perché la quarta domanda era generica. E’ andata così, faremo meglio la prossima volta…

Il nuovo disco ha spesso tematiche intime, che abbracciano concetti legati alla solidarietà fra Esseri umani, reciprocità nei rapporti. L’emergenza sanitaria pensi che aiuterà a riscoprire certi valori?

marco parente life«No, non credo che “LIFE” parli di solidarietà tra Esseri umani, al contrario credo che con disincanto ne indaghi e accetti le contraddizioni. Ancor meno credo che ciò che ci sta succedendo aiuterà a essere più compassionevoli e solidali, anzi credo che presto tireremo fuori il peggio di noi, verremo finalmente allo scoperto. E questo lo dico non da pessimista, bensì da “ottimista informato”».

Gli arrangiamenti sono molto ambiziosi. Qual è stata la linea che hai seguito nella definizione del suono di questo disco?

«Ambiziosi no! Molto curati direi, anche perché quasi interamente composti da solo. Dunque durante questo lungo periodo c’è stata tutta una parte dedicata all’apprendimento, oltre che a quella ludica. Ho sempre seguito maniacalmente l’aspetto estetico che andava a vestire i miei dischi, semplicemente questa volta me ne sono fatto carico personalmente. Fatta eccezione per qualche special guests favoloso: Enrico Gabrielli, Marco Lazzeri, Michele Staino e Andrea Beninati».

Lo scorso settembre si sono celebrati i 18 anni dall’uscita di “Trasparente”, forse l’album che ha meglio fotografato la tua arte. Tu che ricordi hai di quel periodo e di quel disco in particolare? Da quanto non l’ascolti?

«Non lo ascolto più o meno da allora e non ci penso quasi mai. Ad ogni modo considero l’arte come qualcosa in continuo movimento e il giorno in cui sentirò puzza d’autocompiacimento, al limite della stanchezza, beh, credo che allora smetterò di produrre e mi dedicherò ad altro».

Sei uno dei tanti artisti che ha vissuto in prima persona il passaggio dalla discografia classica allo streaming. Hai nostalgia di quel passato? Pensi che oggi l’artista abbia davvero più chance di farsi conoscere rispetto a 10/20 anni fa?

«Ho vissuto, prima da ascoltare, il passaggio dall’audiocassetta e il vinile al CD e poi da musicista quello dal CD allo streaming. Fino al vinile si pensava in termini di disco, ovvero la possibilità di comporre un discorso, un racconto breve, poi con il CD abbiamo iniziato a dipendere dalla quantità rispetto alla qualità, infine siamo passati allo streaming, ovvero né più né meno che lo scaffale di un supermercato. Se questo vuol dire aver più chance di farsi notare rispetto a 10/20 anni fa non lo so, di sicuro più probabilità di essere acquistato sì! Con la sola incognita che gli scaffali di un supermercato sono sempre più affollati».

Non era mai successo che passassero così tanti anni (7) da un tuo disco all’altro. Una casualità oppure una necessità oppure un blocco creativo?

«Niente di tutto questo. Sono semplicemente stato al di fuori dei riflettori con più voltaggio. Se cerchi bene non sono stato fermo neanche un giorno: c’è stato l’esperimento “Disco pubblico” poi la lunga lavorazione di “LIFE”, intervallata da due pubblicazioni questa estate, a distanza nemmeno di un mese, il discometraggio “American Buffet” e la partitura musicale sul poeta Dino Campana. In tutto questo ho trovato il tempo anche di lavorare insieme a Paolo Benvegnù, portando in giro il live “Lettere al mondo”. Cosa che riprenderemo sicuramente appena questo maledetto virus si sarà tolto dai piedi».

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