MOTTA Semplice
Nella storia della musica la letteratura è piena di artisti che hanno creduto di avere – esatto, creduto di avere – un immaginario così forte da non poter fare a meno di declinarlo in forme di autoreferenzialità sempre più sofisticata. E’ come un virus l’autoreferenzialità: ti fa credere che quello che tu vivi sia così importante e unico da doverlo per forza raccontare. Ecco, “Semplice” è un album contagiato da questo virus. Ma anche il precedente lavoro di Motta lo era, e probabilmente – ma qui siamo a ipotesi azzardate – lo sarebbe stato anche lo spettacolare esordio del Nostro, se quel genio di Riccardo Sinigallia nel 2016 non avesse dato un indirizzo al tutto.
In “Semplice”, Motta parla del suo immaginario. Si sofferma sulle piccole cose che gli capitano attorno e lo attraversano, l’amore è sempre descritto con un istinto pop un po’ ruffiano, ma parliamoci chiaro: quando vuoi fare musica e non sei più un pischello, devi dare un colpo al cerchio e uno alla botte, ed ecco che quindi – proprio in quest’ottica – “E poi finisco per amarti” non è neppure malaccio. E’ un singolo per pagare il mutuo, ci sta. Semmai è il resto che ci lascia qualche perplessità, perché tolta l’abilità di Motta nel cantare (ha una voce veramente bella ed espressiva), il contenuto è infarcito di retorica, con qualche linea melodica azzeccata qua e là – vedi “Via della Luce” – e tante canzoni pallide che gravitano attorno alle coordinate del rock, del pop, del folk, della canzone d’autore.