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MODER «Con questo disco ho cercato di guardare in faccia la morte e dirle che non ho paura»

Lui è Moder. Attualmente è tra i nostri rapper preferiti. “Otto dicembre“, il suo ultimo lavoro, è una sorta di racconto per immagini che parte da vicende personali per diventare universale. Un racconto credibile, dove lutto e rinascita, passato e speranza si danno la mano in un girotondo che si fa scaletta e che premia l’ascoltatore. Non ci dilunghiamo oltre. Leggetevi l’intervista.

Partiamo dal titolo. ​Oggi che sei adulto e padre, che rapporto hai con quella data che ha segnato la tua vita?

«Non credo di aver superato completamente la cosa. Quando si avvicina quella data non sto bene, mi aspetto sempre che succeda qualcosa. Considera che, oltre a mio padre, l’8 dicembre ho perso una nonna: è come il mio giorno sfortunato».

L’album come valvola di sfogo?

«Con questo disco ho cercato di guardare in faccia la morte e dirle che non ho paura: è da quando sono piccolo che la vedo attorno a me e da bimbo mi sentivo come inseguito. Matilde (mia figlia) mi ha fatto ragionare su quanta vita ho avuto e ho attorno, e la vita non la possiedi, devi solo viverla: ecco, forse ora cerco di vivere, cerco di non pensare a tutto il resto e quando ci riesco è come tornare bambino prima di quell’8 dicembre del 1994».

Nel 2013 dicevi: “…il rap mi ha fatto conoscere il teatro, la letteratura, la musica, è stata una scuola di vita più che una passione”. Se però guardo al rap che gira oggi e che va forte in radio o in tv, direi che quello che hai scoperto tu è stato sostituito oggi da “droga, fare grosso e misoginia”. Un adolescente come si può orientare in questo panorama vastissimo di rap? 

«Non ci sono regole, sicuramente conoscere la storia aiuta ma bisogna stare attenti a non idolatrare il passato e creare miti ingombranti. Il rispetto e la conoscenza delle radici non devono cedere il passo al museo: il rap è vivo oggi più che mai e finché un ragazzino sputerà qualche rima chiuso in camera ci sarà futuro per questa cosa. Alla ricerca delle “parole” mi sono imbattuto in mondi diversissimi dal mio ma questo anche grazie a incontri che solo nella mia città potevo fare, sono troppi per poterli elencare ma sicuramente senza Luigi Dadina del Teatro delle Albe e Andrea “Duna” Scardovi, non avrei potuto accedere a niente oltre al rap. Ma è altrettanto vero che è solo grazie al rap se ho approfondito arte, musica e letteratura».

Continua…

«Ti faccio un esempio: Marracash (che è molto noto) scrive benissimo e scioglie nei suoi testi citazioni che, se sviluppate da chi ascolta, possono aprire pianeti. Oppure penso a Murubutu: io da piccolo ho avuto la fortuna di conoscerlo e, negli anni, di suonarci insieme; ora basta aprire Spotify per ascoltare i suoi dischi (prima introvabili). Secondo me non è cambiato molto: l’ascolto medio della musica è sempre stato molto superficiale, basta guardare le classifiche dalla metà degli Anni ’50 in poi: erano piene di merda. Il rap nei ’90, e per buona parte dei primi Anni 2000, è stato un genere di nicchia, anche se aveva grossi risultati (penso a Neffa, agli Articolo 31 e ai Sottotono). Ora che è più “pop” (nel senso di popolare, ormai è in tutti gli iPod e nelle playlist, non è più qualcosa di “alternativo”) spesso scende a compromessi col mercato. La mancanza di voglia di approfondimento è ormai la regola in tutti i campi della vita, non è colpa del rap mainstream, è nella pigrizia di chi ascolta. Detto questo, mi pare che il cosiddetto mercato ora apra più possibilità per tutti».

Morale?

«Non credo nel bene e nel male ma nelle scelte, ognuno di noi è libero di decidere cosa essere. Non c’è un modo corretto per approcciarsi alla musica, con la musica ci si scontra e se si resiste alle botte e alle delusioni forse riesci a trovare il tuo motivo per starci in mezzo».

I testi di “Otto dicembre” sono veramente efficaci. Come sono nati e come li hai affinati? Dall’esterno non si capisce se sono frutto di un continuo taglia-e-cuci oppure se (in larga parte) sono stati scritti di getto.

«Ho scritto molto di getto ma avevo fatto i compiti a casa negli anni precedenti: per fare rap bisogna conoscere la scrittura, il flow, il tempo, l’approccio vocale. Senza fondamenta si crolla in fretta. Alcuni pezzi li ho scritti da ubriaco: è stato come vomitare brandelli di vita, come dipingere con le dita. Io avrei voluto saper disegnare ma so fare solo il rap».

Se ti dicessi che in alcuni tuoi pezzi si sente qualcosa del Salmo di oggi, la prenderesti come un’offesa? 

«No, non mi offendo, Salmo è fortissimo e ha dimostrato di essere un artista, di stare a cavallo tra generi e pubblici diversi senza mai forzare nulla: ha svecchiato il gioco. Detto ciò, sinceramente sento anche di essere molto diverso da lui».

Quali sono i rapper italiani che ti piacciono o per cui nutri stima e rispetto?

«Il rap mi piace tutto, sono onnivoro e in Italia apprezzo moltissime cose: Guè, Marracash, Fibra, Danno, Bassi, Lugi, Warez, Mattak, Murubutu, Claver, Axos, Lince, Willie Peyote, Luchè, Hyst, Egreen e altri. In America l’elenco sarebbe troppo lungo: ultimamente sto approfondendo J. Cole, Lamar e Anderson .Paak».

In “Otto dicembre” hai senza dubbio rielaborato il tuo dolore. Ma senza il rap, in che altro modo avresti tirato fuori certe cose?

«E’ difficile dirlo, ti direi scrivendo, ma poi arriviamo sempre lì: amo il rap e il songwriting perché prevedono una performance e io ho bisogno dell’azione e del contatto. Non potrei stare a casa a scrivere senza pensare a un live. Probabilmente senza il rap avrei fatto tutt’altro e mi sarei ubriacato di più di quanto ho fatto finora (e non è stato poco)».

Nel disco parli spesso della tua vita da “ragazzo”, le uscite con gli amici. Hai nostalgia per quel periodo? Diventare adulti è una fregatura?

«La fregatura siamo noi e il mondo blindato che ci costruiamo intorno, la fregatura è che facciamo di tutto per dimenticarci chi siamo ma non è colpa dell’età adulta, anzi, spesso a 15 anni siamo già ciò che diventeremo, solo meno stanchi. Io non mi sento cambiato rispetto a 10 anni fa, chissà, forse è quello il problema».

Tra Lanfranco e Moder, cioè tra te e l’artista, che differenze ci sono?

«Moder vuole sbranare il mondo e Lanfranco prova a usare quella fame per lasciare qualcosa, tutto sommato si convive bene».

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