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BIG FISH «Voglio divertirmi facendo musica e non essere costretto a fare delle cose per soldi o fama»

L’attività discografica di Big Fish come dj e produttore è iniziata nel 1994, più di vent’anni sulla scena italiana a cavallo tra hip hop e suoni ricercati, tra successi e voglia di evolversi, di guardare oltre le soluzioni facili. Un rapporto col beat che è nato in maniera curiosa: «Fino a 14 anni odiavo profondamente musica e discoteche. Nel 1987 guardando la tv sono capitato su un canale locale che trasmetteva illegalmente Mtv UK e da lì non ci ho capito più nulla. Era l’inizio dell’house music, la musica che potevo fare anche io, quella che era fatta dai non musicisti. Quella che si contaminava con l’hip hop. E’ stato uno shock!».

Hai attraversato diverse “vite” dell’hip hop in Italia. Credi ci sia stata un’evoluzione (positiva o negativa) del fenomeno oppure un appiattimento verso i soliti cliché?

«Penso che l’hip hop ormai sia piatto, o almeno penso che non ci sia la voglia di fare delle belle canzoni come succedeva negli Anni ’90, ma che si ricerchi a tutti i costi di arrivare in radio uniformandosi a tutto ciò che è media standard».

Io fortunatamente prima di fare musica ho fatto un altro lavoro che mi ha formato parecchio e ho sempre vissuto la musica come un impiego normale. Non mi sento come tanti altri che si ritengono superiori a tutto e tutti

Coi Sottotono hai vissuto il successo negli Anni Novanta. Se ripensi a quel periodo che ricordi hai, qual è la prima immagine che ti viene in mente?

«Ho sicuramente un bel ricordo. Succedeva tutto e non me ne accorgevo. Il primo ricordo è quello della mia cantina dove provavo a far musica e subito dopo il flash della vittoria del Festivalbar».

Qualche anno fa dicesti in un’intervista che Rancore, Caparezza ed Emis Killa erano i migliori rapper in circolazione. Oggi chi sta portando qualcosa di nuovo alla scena rap italiana?

«Oltre a loro, purtroppo nessuno».

Hai conosciuto il successo sia in prima persona, sia come producer. Ma nel dettaglio cos’è il successo? Non credo siano necessariamente i soldi perché ne circolano pochissimi qui da noi, quindi cos’è? L’invito alle feste? I magazine che parlano di te? I video? I like su facebook? Le ospitate?

«Il successo è una droga che quando provi, poi non puoi più farne a meno. Io fortunatamente prima di fare musica ho fatto un altro lavoro che mi ha formato parecchio e ho sempre vissuto la musica come un impiego normale. Non mi sento come tanti altri che si ritengono superiori a tutto e tutti. Poi quando cadono si fanno molto male. Ho avuto la fortuna di avere tanti successi, ma anche tantissime mazzate che mi hanno raddrizzato per bene».

Credi che se ci fossero stati, in pieni Anni Novanta avresti partecipato ai talent? E’ un trampolino di lancio utile oppure è la strada più semplice verso la facile illusione/delusione?

«Non penso che ci avrei mai messo piede. Vai ai talent se canti o balli bene. Non pensare che i talent possano poi farti fare una carriera come vuoi, farai sempre quello che ti diranno gli altri. Se ti sta bene, fallo».

Il beat è un’alchimia strana. Nel tuo caso in che proporzioni istinto e background/ascolti incidono sul tuo stile? Insomma, in che modo nascono i tuoi suoni? Esiste un particolare status che li asseconda a uscire oppure è un lavoro (quasi impiegatizio) quotidiano?

«Esiste un sacco di conoscenza della musica. Idee, ricordi e prove. Non c’è la magia, si prova e stop».

Visti dalla pedana del palco, i giovani di oggi ti sembrano diversi da quelli di 10 anni fa o diversi dagli adolescenti della tua generazione?

«Ma certo, sono più svegli grazie ad Internet, conoscono il mondo grazie al computer. Il problema è che non escono di casa e hanno difficoltà nelle relazioni».

Oltre al lavoro sulle compilation “Doner Bombers”, dedicate ai talenti della musica elettronica, su cos’altro stai lavorando negli ultimi tempi?

«Su cose mie di generi vari. Voglio divertirmi facendo musica e non essere costretto a fare delle cose per soldi o fama».

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