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SIGNOR K «Canto l’impegno sociale, il farsi carico del comune, un invito alla partecipazione»

Signor K è approdato al suo primo album ufficiale, “Saremo Tutto“, dopo due street album che negli ultimi cinque anni gli hanno permesso di acquisire visibilità, esibendosi in tutte le principali città italiane. Per questo suo debutto, ha avuto al fianco Bonnot alle musiche e poi collaborazioni prestigiose: Assalti Frontali, 99 Posse, Inoki e altri.

La prima cosa che voglio chiederti è sul tuo attivismo. Manifestare per un diritto (lavoro o casa, ad esempio) ha ancora senso oggi che di scioperi non se ne fanno più e la protesta sembra essersi trasferita sul web sotto forma di antipolitica?

«Negli ultimi venti anni il web è diventato indubbiamente un canale cruciale di comunicazione politica, ma non credo che abbia sostituito le piazze. Al contrario, oggi, il web appare spesso come megafono e strumento di coordinamento dei movimenti, e dunque un punto di forza piuttosto che la spia di un declino. D’altra parte, questi sono tempi di sconvolgimenti tutt’altro che virtuali: penso alle centinaia di migliaia di persone che in questi mesi stanno sfidando il Mediterraneo e le frontiere europee, ma penso anche alle grandi mobilitazioni di massa che continuano a sorgere da un capo all’altro del pianeta, come le rivoluzioni arabe degli ultimi anni, o il grande movimento afroamericano che nel 2015, da Ferguson, ha investito tutti gli Stati Uniti. E penso pure all’Italia, alla recentissima questione delle unioni civili per esempio, che ha impegnato per settimane pagine di giornali, dibattiti televisivi e discussioni nel web, ma che ha anche riempito le piazze. Oppure, per restare sui temi di “Saremo Tutto”, la questione abitativa: a Milano circa 15000 persone senza casa stanno occupando un alloggio per riappropriarsi di un diritto fondamentale che è loro negato: sono numeri straordinari, quasi una città nella città. Insomma, si tratta solo di alcuni esempi, ma direi che la questione dei diritti è ancora attualissima».

Qual è il tuo rapporto con la politica?

«Il mio rapporto con la politica è ben espresso dalle mie rime. E’ la politica fatta nel sociale, dal basso. E’ una politica lontana dal Palazzo, che parla la voce di quella parte di società italiana che è relegata ai margini del benessere e del dibattito pubblico. Ma è anche la voce di chi alza la testa, una voce che parla di riscatto sociale, perché “Saremo Tutto” è un disco che tratta anche e soprattutto di aspirazione e futuro. Le mie canzoni parlano di difesa dei propri diritti, parlano di antimafia, parlano di democrazia dei territori e di dignità: è un invito all’impegno sociale, al farsi carico del comune, è un invito alla partecipazione. Ecco, in tutto questo c’è la mia idea di politica, la politica in cui ripongo la mia fiducia».

Il tuo album d’esordio ha diverse collaborazioni. Mi incuriosisce il rapporto con Militant A, Inoki e Luca dei 99 Posse. Ti hanno dato qualche consiglio per restare a galla nell’hip hop italiano?

«Diciamo innanzitutto che le collaborazioni contenute nel disco sottolineano la mia appartenenza, trattandosi di artisti accomunati dallo stesso background e da un certo modo di intendere la musica. Musica e attivismo: un connubio che è alla base della scena delle posse, di cui 99 Posse e Assalti Frontali sono appunto tra i massimi esponenti di tutti i tempi. Ed è lo stesso connubio che caratterizza anche la mia esperienza. Conoscersi e trovarsi in sintonia è stato quasi inevitabile: veniamo dallo stesso “sottobosco”, parliamo la stessa lingua. Da questo punto di vista, con tutti gli ospiti c’è un feeling coltivato nel tempo. Non faccio collaborazioni che per me non abbiano un significato. E non si tratta mai di un semplice scambio artistico: per me collaborare significa suggellare un rapporto di stima che esiste già. Dopodiché, è chiaro che io mi senta un po’ il fratello minore di tutti questi Mostri Sacri della scena. Ma il loro atteggiamento nei miei confronti è sempre stato molto orizzontale. Più che consigli, dunque, direi che ho avuto buoni esempi: un certo modo di concepirsi come artisti, di relazionarsi con le altre persone e col pubblico, di intendere la propria “missione”, di salvaguardare la dimensione collettiva del proprio percorso artistico. E lo stesso vale anche per Inokiness, uno dei pesi massimi nella storia dell’hip hop italiano di cui rispetto molto l’attitudine autentica della persona, prima del rapper».

Il disco è stato lavorato gomito a gomito con Bonnot. Perché la scelta di dargli completa carta bianca sulle musiche? Una debolezza o una necessità?

«Bonnot ha curato interamente le musiche del disco, come io ne ho curato interamente le liriche. Ma il disco è il prodotto di un confronto serrato, di scambio quotidiano, di accordi e dissonanze. Direi che nessuno di noi due ha avuto carta bianca nel proprio ambito. Di solito, io arrivo in studio con una idea di canzone e un testo già parzialmente abbozzato. Parliamo del significato della canzone che ho in mente, del mood che mi immagino; ragioniamo e ascoltiamo un po’ di musica. Così finché non ci rendiamo conto di essere sintonizzati sulla stessa frequenza, il che può richiedere anche qualche ora. Poi Bonnot comincia a lavorare, e io gli do dei feedback seduta stante; in questo modo aggiustiamo il tiro in divenire. Questa è una prassi su cui Bonnot ha sempre insistito, poiché, a ragione, ritiene essenziale che io sia presente e condivida la fase di produzione delle musiche. Al contempo, abbiamo condiviso anche i contenuti; in alcuni casi è capitato di curvarne lo sviluppo in una direzione che inizialmente non avevo considerato. E d’altra parte non potrebbe essere diversamente: i contenuti del disco hanno una chiara vocazione politica, riflettono la nostra maniera di vedere le cose, era necessario che fossimo in sintonia anche su quello».

Il tuo slogan è “La voce della città di sotto!”. Chi c’è nella “città di sotto” e chi abita “La città di sopra”?

«L’immagine di una “città di sotto” contrapposta a una “città di sopra” rimanda alla crescente polarizzazione sociale che, su scala globale, caratterizza le metropoli di tutto il pianeta. “La città di sopra” è la città sfavillante della produttività economica, dei templi del consumo, dei grattacieli del potere finanziario, dei palazzi della politica. “La città di sotto”, invece, è la città degli esclusi, quella dei ghetti statunitensi e delle baraccopoli di Africa, Asia o America Latina, ma anche quella, molto più vicina a noi, delle periferie marginalizzate di Milano. Non è difficile vedere in questa narrazione l’eco dei movimenti sorti sull’onda della crisi finanziaria, a partire da Occupy Wall Street fino alle Acampadas di Spagna: “La città di sopra” è la città di quell’1% della popolazione mondiale che detiene più della metà della ricchezza globale, mentre “La città di sotto” è quella del restante 99%. Ecco, le mie rime sono la voce di questa parte di città, una contro-narrativa che rovescia l’idea della “città di sotto” come luogo improduttivo ed inservibile, facendone invece un laboratorio di democrazia, solidarietà e multiculturalità. Non si tratta ovviamente di una mitizzazione, non ho mai inteso negare le contraddizioni di questi territori, ma, spesso, è proprio dove prendono forma i conflitti più aspri e si esprimono le convivenze difficili che si fa società e si trovano antidoti. Non è un caso che la traccia di “Saremo Tutto” da cui è tratta questa immagine della “città di sotto” sia stata scritta insieme a M1, dei leggendari Dead Prez di New York: l’hip hop, la CNN della strada, la voce dei senza voce, non viene dai palazzi del potere e dai quartieri del benessere. Questa cultura che ha cambiato per sempre la storia della musica viene dalle case popolari, dai ghetti afroamericani, viene dai territori delle convivenze difficili. E’ la voce della “città di sotto”!».

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