…A TOYS ORCHESTRA Come star fuori da comode geometrie e facili confini
Il nuovo disco mette in mostra una band generosa di idee e suoni, ma forse, rispetto al passato, più abile nel maneggiare gli ingredienti. E’ quella che molti chiamano maturità?
«Non credo. Non mi interessa la maturità. Non mi ha mai convinto per definizione. La maturità significa avvicinarsi troppo ad una meta, varrebbe a dire accontentarsi di se stessi. Non fa per noi. Preferisco vedere ancora una strada lunga davanti».
Perché il nuovo disco è stato lavorato a Berlino e cosa c’è di “italiano” nella musica che fate?
«C’è una forte drammaticità insita nella nostra scrittura che probabilmente scaturisce dalle nostre origini di italiani e di campani. “La Gatta Cenerentola” di De Simone è ancora oggi l’unico disco che so cantare a memoria. Per il resto è chiaro come il Sole che abbiamo scelto di muoverci in altre direzioni. Cantiamo in inglese e suoniamo una musica che non di certo trova le sue radici solo nel nostro Paese. Ci piace immaginarci fuori da geometrie e/o confini. Berlino è servita anche a dar senso a questo tipo di concetto».
Il termine “Indie” ancora oggi rimane un oggetto misterioso. E’ un po’ un contenitore dell’indifferenziato. Ci si butta dentro di tutto. E’ comico però come tutti saltino sul carrozzone e poi però nessuno voglia rivendicarne l’appartenenza, anzi tutti a urlare “Vade retro!”
Sedici anni di attività sono ancora pochi per provare una carta come quella del Festival di Sanremo?
«Sanremo è un mondo che non ci appartiene per tanti motivi. A cominciare appunto dalla scelta della lingua inglese, che non abbiamo nessuna intenzione di abbandonare».
Che Paese è l’Italia sia per crescere, per vivere e per suonare?
«Un posto caotico e confuso. Dove nulla è scontato, e non di certo nel senso migliore del termine. Sembrerò banale e pedante ma è difficile parlare di futuro in questo Paese. Avere un presente è già un privilegio. Non è neppure una questione legata alla tanto famigerata crisi, ma è proprio che mancano le prospettive e i pilastri atti a sorreggere tutto. Nella musica, nonostante gli alti e bassi degli ultimi periodi, tutto sommato il quadro è migliore. Ci sono tanti posti dove suonare e tante persone che ancora si sbattono. E cosa ancor più importante esiste un pubblico che va ai concerti. Strutturalmente e burocraticamente però siamo alla Preistoria, la musica sarà sempre alla stregua di un hobby della domenica pomeriggio».
Non aver mai lavorato con una major è un rimpianto oppure un vanto?
«Né l’uno né l’altro. E’ solo un dato di fatto».
Avete avuto Jeremy Glover (Liars, The Devastations, Crystal Castles e IAMX) dietro al mixer per questo album. Lui ha lavorato con un sacco di gruppi. Vi ha raccontato qualche aneddoto in particolare?
«Tempo fa era in tour come fonico con i Crystal Castles. Avevano suonato ad un grosso festival inglese e dopo il concerto si erano riuniti in hotel per rilassarsi a bere qualcosa e giocare a carte. Erano nel pieno del relax fino a quando un ragazzino brufoloso e con un taglio di capelli molto fashion ha cominciato a metter su i suoi pezzi al computer per farli ascoltare alla cantante, arrecando un certo disturbo alla quiete di Jeremy. Quando il “giovincello” è andato via ha chiesto agli altri chi fosse. Beh, era niente popò di meno che Skrillex».
In Italia vanno molto di moda negli ultimi anni. Che opinione avete dei talent?
«Non una grande opinione. Di sicuro è peggiore quella che abbiamo per il loro pubblico. Ma il mondo è bello perché è vario, no? Peccato solo che grazie a questi, vario il mondo non lo sia più così tanto».
Esiste una scena underground in Italia oppure è un’etichetta tanto pomposa quanto vuota?
«Il termine “Indie” ancora oggi rimane un oggetto misterioso. E’ un po’ un contenitore dell’indifferenziato. Ci si butta dentro di tutto. E’ comico però come tutti saltino sul carrozzone e poi però nessuno voglia rivendicarne l’appartenenza, anzi tutti a urlare “Vade retro!”. Un po’ come quando Berlusconi vinceva le elezioni: con chiunque parlassi nessuno lo aveva votato. Secondo me basterebbe limitarsi all’etimologia del termine: “Indie” sta per “Indipendente”. E ti passa la paura».