DANIELE CELONA «Quello che fai non dovrebbe “far figo”, ma essere il risultato di inclinazione naturale e attitudine»
Il 2015 è stato anche un po’ l’anno del bravo Daniele Celona e del suo “Amantide Atlantide“. A noi il suo modo di cantare piace parecchio, così come ci piace quel mischiare cantautorato e orecchiabilità cercando di dare sempre (o quasi) nobiltà agli stati d’animo. Lo abbiamo intervistato.
Il tuo ultimo lavoro è uscito quasi un anno fa. Nel mezzo cosa c’è stato e quanto senti attuali quelle canzoni?
«A febbraio sarà un anno, è vero. Porti le canzoni al ballo del debutto in società. Poi si tratta di farle correre e tu corri con loro. Tra gli ostacoli, nei sacchi. Nuoti, remi e vai avanti, una sfida alla volta pur di farle conoscere. Nella speranza che qualcuno le noti e le apprezzi al di là del vestito non troppo costoso che hanno addosso. E’ il vestito che ti sei potuto permettere da padre squattrinato».
Le guardi ancora come capaci di comunicarti emozioni particolari o sei proiettato verso cose (canzoni?) nuove?
«Sì, le guardo ancora con affetto queste undici figlie. Ma registrare un disco è quasi sempre un’operazione asincrona al momento della scrittura. La prova del tempo parte quindi ancor prima che i brani arrivino a orecchie terze. Il live è forse il momento che permette di recuperare almeno in parte quell’accecante amore iniziale, durante la celebrazione di quella cerimonia del tutto particolare che è un concerto. Sto lavorando a materiale nuovo naturalmente, la fame di scrittura non mi è mai mancata per fortuna».
Mi piace molto il tuo modo di cantare. Mettersi a nudo con la musica (usando la propria voce) oltre ad avere un notevole effetto terapeutico, quanto aiuta con le donne? E’ anche un modo per chiederti se oggi fa ancora figo dire “faccio il cantautore” (come succedeva negli Anni Sessanta/Settanta) oppure funziona molto di più dire “faccio rap”?
«Per come la vedo io, quello che fai non dovrebbe “far figo”, ma essere il risultato di inclinazione naturale e attitudine. In definitiva definire chi sei, prima ancora del “ciò che fai”. La dicotomia è semmai da sempre, e in questo travalica generi, decenni e mode, tra chi esterna i propri moti con onestà e sincerità, utilizzando il mezzo che più gli è proprio (la musica nel nostro caso) e chi si arrangia, recita un ruolo conveniente o peggio fa il parassita. Il moto in questione può essere “alto” o viscerale, grezzo, non importa. Certo se utilizzi una lingua splendida come l’italiano giusto per dire quanti dischi hai venduto e che in virtù di questo scopi più di Tizio o Caio, non è problema di cantautorato, rap o rock. Solo di idiozia».
Per il brano “Atlantide” hai goduto della partecipazione di Levante, che nel 2015 è uscita anche lei con un album molto interessante. Ci dici qualcosa di Levante che non conosciamo?
«L’album di Levante è molto bello e ho avuto la fortuna di parteciparvi registrando qualche pianoforte. In realtà non ho da dir nulla su di lei come artista che bene o male non sappiate, lei si presenta per quello che è, senza necessità di filtri. Poi per me è come una sorella minore, credo non sia un segreto. Parliamo dei sogni e delle difficoltà legate alla musica da molto tempo, da prima che uscissero i nostri dischi».
Nel video recitavi un pochino oppure quel pezzo ti trasmette davvero una particolare sofferenza?
«Nel video di “Atlantide” recito, certo. La sceneggiatura esula dal significato che quel brano assumeva per me quando l’ho scritto. Coi registi abbiamo colorato e caricato il personaggio di una sorta di insana ostinazione, che si pone quasi al confine con la pazzia».
In una recente intervista hai detto: “Quando vado a letto leggo qualche fumetto e infine provo senza successo a scacciare lontano il volto che non vorrei vedere quando chiudo gli occhi”. Mi ha incuriosito molto questa frase. A quale volto ti riferivi? E quali sono i fumetti che ti appassionano?
«Il riferimento è chiaramente privato. Per quanto riguarda i fumetti, se stiamo al Bel Paese, sono banalmente un dylandoghiano. La parte nerd nipponica potrebbe invece citare il solito “Nausicaä” del maestro Hayao Miyazaki e “Kimagure Orange Road” di Izumi Matsumoto».
Ancora qualche settimana e riaprirà il Festival di Sanremo. Ti sei mai immaginato su quel palco? E lo vedi tanto differente dal palco dei Talent che girano in tv?
«Mi piacerebbe un Sanremo che rispondesse davvero alla definizione di “festival della canzone italiana” e che contribuisse pertanto alla diffusione della musica popolare di qualità. Fosse anche mostrare qualcosa di diverso e alternativo nelle sezione “Nuove Proposte”. Sperare non costa nulla, magari non sarà per sempre il pessimo carrozzone televisivo attuale. Il parallelo coi Talent non regge per semplice formula aritmetica. Abbiamo da un lato una promozione televisiva che dura per mesi contro il one-shot o poco più del festival che anzi, da quei contenitori deve (ma davvero deve?) attingere dei nomi».