LUCA FAGGELLA «La musica? E' l'infanzia che ancora vivo, quello che resta del me stesso bambino»
Ha da poco dato alle stampe un’antologia che racconta tanto della sua ventennale carriera, ma che dice anche molto del percorso che sarà, perché l’album contiene una manciata di inediti, fra cui “Tempo”, il singolo che Luca Faggella ha scelto per lanciare questo nuovo lavoro.
La prima cosa che voglio chiederti è relativa a questa antologia che poi è anche un nuovo disco. Che valore dare a essa? Un disco nuovo con anche delle canzoni vecchie o il contrario? Insomma, qual è la sua chiave di lettura?
«Per me è nuovo, vuoi perché ci sono diversi inediti, sei. Vuoi perché è una antologia, più che un “best of” che con la mia storia avrebbe poco senso. Vale a dire quello che ho scelto per rappresentare tutto il percorso. Quello che credo possa restare, a iniziare dalle nuove canzoni».
Tu vieni da una città che ha spesso espresso artisti tormentati – penso a Ciampi, a Rondelli, ad esempio. Vista da vicino, che realtà è Livorno e in che maniera ispira gli artisti?
«Credo che ogni città esprima artisti diversi e non necessariamente li caratterizzi. O li ispiri. Può accadere o anche non accadere. I tormenti di Piero Ciampi sono stati il lascito di dolorose vicende familiari, più che una ispirazione della città, della sua aria. Ci sono anche artisti felici a Livorno, penso a Federico Maria Sardelli, a band come i Sinfonico Honolulu o anche se son dei bei darkettoni come me, ai Siberia».
Che momento stiamo vivendo in Italia dal punto di vista musicale? Sembra che le grosse novità degli ultimi anni siano state il rap e i Talent…
«Già, è un momento strano in cui anche ciò che non viene dai Talent ci si uniforma o tende a emulare quel tipo di produzioni. Del rap non so cosa dire, non mi attrae molto e non riesco ad ascoltarlo se non qualcosa di “storico” (Assalti Frontali per esempio…). Credo che ci siano molte energie compresse, che aspettano solo di poter essere liberate da un maggiore interesse del pubblico. Ho fiducia che stiano per succedere cose belle insomma. I reality esprimono sempre le stesse voci standard: bravissimi certo, ma sempre cantanti “in franchising” per così dire, senza la colla e sabbia di voci come Bob Dylan o Joe Strummer. O le profondità di Johnny Cash o Leonard Cohen, l’asprezza e intensità di Nick Cave. E’ quello che alla fine ama il pubblico. La personalità. E nei reality tutti questi signori che ho citato, sarebbero stati tutti bocciati ai provini».
Superati i 30/40 anni, perché si continua a fare musica? Insomma, superato l’incanto e fatti i conti con il disincanto di una professione crudele, perché si va avanti?
«Perché non sono mai stato incantato o disincantato e suonare per me è un gioco, mai legato all’età giovanile, semmai all’infanzia, è l’infanzia che ancora vivo, quello che resta del me stesso bambino. Una parte importante quindi».
Tu sei stato fra i primi a usare internet per veicolare la tua arte. Credi che il web abbia dato, in questi anni, ciò che prometteva agli artisti 15 anni fa? Nel senso: ha fatto da reale megafono oppure ha solo intasato gli spazi con una valanga di proposte spesso non professionali?
«Mah, entrambe le cose direi. Un po’ oro, un po’ merda. La cosa interessante è la possibilità di un contatto più diretto e immediato con chi ti ascolta, la cosa deprimente è l’intasamento assurdo che fa sì che anche cose senza amore o cura vengano buttate lì, come fosse anche una specie di discarica dei tentativi. Le promesse del web (soprattutto del dare nuove possibilità economiche) al momento non mi sembrano mantenute ma mai dire mai».