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FABIO CINTI «Il paragone con Franco Battiato mi perseguita...»

La data del 20 settembre coincide quest’anno con l’uscita di “Forze Elastiche” (Marvis LabL), il nuovo lavoro di Fabio Cinti prodotto da Paolo Benvegnù. Un album extra large per diversi motivi: ha una durata che sfiora l’ora di ascolto e lungo la scaletta sono tanti gli ospiti presenti.

Partiamo proprio dagli ospiti. Un’esigenza? Una casualità? Il bisogno di dare sfumature diverse alle canzoni?

«Un po’ tutte e tre le cose. Con Nada, per esempio, la collaborazione era nata per un’altra occasione che poi non è andata in porto, quasi un anno prima dell’inizio della produzione dell’album. Siamo rimasti in contatto, le è piaciuto il mio lavoro e alla fine è andata che ha cantato (magistralmente) “Cadevano i santi”. Con Massimo Martellotta ci conosciamo dai tempi del liceo invece, ci sentiamo e ci raccontiamo le nostre vite e così si finisce anche per fare qualcosa insieme: che poi lui sia una dei musicisti più bravi in circolazione, questo esula dalla nostra amicizia, è un valore aggiunto e un grande privilegio per me. The Niro e Grazian li ho contattati io, perché mi piacciono molto le loro voci, e così è andata anche per gli altri musicisti: c’è stima reciproca ed è un piacere, soprattutto personale, fare cose insieme. Poi, ovviamente, a trarne giovamento è anche l’album. Le collaborazioni, se hanno senso, mi interessano sempre molto, mi incuriosiscono».

La prima cosa che stupisce del disco è la scaletta extra large. Perché questa scelta?

«Anche in questo caso non è stata proprio una scelta, ma una conseguenza e quindi un’esigenza imprescindibile. Con Paolo Benvegnù non ci siamo posti limiti: bisognava fare quello che ci eravamo prefissati, senza costrizioni o paure (funzionerà, non funzionerà…). Eravamo pronti a tagliare se avessimo avuto il sospetto che qualche pezzo funzionasse meno, ma alla fine ci è sembrato tutto incastrato ed equilibrato nel modo che volevamo. Sentiamo spesso dire che questa è l’Era dei singoli, che la gente non compra gli album, cose così, ma in fondo chi se ne frega! Ognuno dovrebbe fare quello che si sente. E se sente di dover far soldi, che segua le regole del mercato!».

Nel disco l’eco di Franco Battiato si avverte spesso. Il lavorare con lui quanto ti ha influenzato e quanto continua ad influenzarti? 

«Il paragone con Battiato mi perseguita. Una volta lui mi disse, a proposito di questo: “…quando sentono più di tre accordi in croce allora si fa il paragone con me!”. Ora, è indubbio che io abbia delle influenze, con Battiato ci sono cresciuto (e fare la sua conoscenza ha addirittura rafforzato la stima nei suoi confronti), ma sono cresciuto anche con molta altra musica. Però temo che ormai si tratti più di qualcosa duro a morire nelle orecchie della gente, sono bollato così. Chi conosce Battiato sa anche che tutta questa somiglianza è più nella nomea che nei fatti. In ogni caso, non credo che la questione in sé debba influenzare così tanto il giudizio di un lavoro così complesso. Per fare un esempio, nel bellissimo album di Iosonouncane sono evidenti le influenze del Battisti di “Anima Latina”, ma questo non mi infastidisce (anzi), né mi impedisce di capire che si tratta di un album molto valido. E di esempi ce ne sarebbero molti altri, anche a livello internazionale: gli Elbow hanno molto di Peter Gabriel, ma io adoro entrambi! Dal punto di vista critico, poi, dire semplicemente “somiglia a” è fin troppo semplice».

E’ il migliore, Battiato?

«Se Battiato è il migliore? Difficile trovare qualcuno che, anche in modo apparentemente non evidente, non sia stato influenzato da lui, è un po’ come Bowie».

Quali cantautori, oggi, hanno raccolto l’eredità dei vari De Gregori, Guccini, Battiato?

«Ce ne sono di molto bravi, solo che come al solito – e sempre di più – il “facile” fa più strada, come se la musica fosse sempre meno un’arte e più un intrattenimento da giostre. Ho già nominato Iosonouncane, e poi Benvegnù chiaramente, Bianconi, Fabi, Sinigallia, Colapesce, ma anche Lele Battista, Alessandro Grazian».

Parlami di Paolo Benvegnù. In che modo ti ha guidato verso la realizzazione di questo lavoro? E soprattutto: come ha migliorato le tue canzoni?

«Paolo è stato ed è per me soprattutto una guida spirituale, un confidente, un amico, un riferimento integro con cui ho condiviso questa parte della mia vita. Senza voler sminuire nulla, posso dire che l’aspetto pratico, tecnico, di realizzazione dell’album, è stato un dettaglio rispetto al vissuto. Siamo entrati in connessione e in collisione, e non c’è stato mai neanche un momento in cui ci siamo trovati a disagio l’uno di fronte all’altro, rispetto alle scelte o alle opinioni. Ci rispettiamo molto perché siamo stati anzitutto completamente sinceri. Se vogliamo entrare nel dettaglio tecnico invece, lui è partito con queste parole: “Ti devo rendere evidente”. E solo dopo ho capito che intendeva togliere tutte le sovrastrutture che nel corso degli anni mi avevano appesantito. E così mi ha guidato in una direzione che adesso posso dire che era l’unica possibile, la più forte, quella che mi ha riportato alla mia intimità. Perciò, non ha solo migliorato, ma ha scoperto quello che era in qualche modo represso e nascosto da un eccesso di razionalità».

Sui testi è stato fatto un lavoro eccellente. Come lavori con le parole? Come nascono le tue liriche?

«Grazie. I testi sono sempre scelti accuratamente, sia io che Mauro Mazzetti (alcuni testi sono suoi) lavoriamo selezionando in modo molto severo quello che produciamo. Per quanto riguarda la mia scrittura, ogni testo nasce da una commozione, positiva o negativa, nei confronti della vita, di quello che mi accade o che osservo accadere. Non trovo interessante raccontare che la fidanzata mi ha lasciato o che mia madre oggi ha steso il bucato al sole, anche se questi eventi sono legati a un tipo di osservazione che scava più profondamente, una metafora, per intenderci. Secondo me non basta se si vuole fare un balzo più in là. Un testo non è un appunto venuto bene scritto sul diario di viaggio, bisogna lavorarci, così come fa uno scultore. Personalmente, poi, non cerco mai di colpire l’ascoltatore con qualcosa che già conosca, perché io stesso mi stupisco molto di più quando un testo è sorprendente e mi dice qualcosa che non sapevo, senza per forza dovermici riconoscere».

Tu sei da tanto nell’ambiente. E’ cambiata (quanto e come) la scena indipendente italiana in questi anni?

«Cambia continuamente, in effetti. E il cambiamento più evidente c’è stato quando la scena indipendente ha iniziato in qualche modo a ghettizzarsi, a essere più un fenomeno di moda che non un’espressione di libertà, slegata dalle regole del grande mercato discografico. Da una parte questo ha contribuito a rafforzare un ambiente che fino a dieci anni fa era considerato meno di zero (oggi un concerto dei Ministri fa più gente di un artista medio del mainstream che passa in tv) ma dall’altra ha creato dei mostri. In questo momento, per esempio, mi piacerebbe che tanto i locali che le riviste di settore avessero più coraggio nel presentare anche artisti meno alla moda e pure bravissimi, per creare situazioni nuove e in continuo movimento, sperimentare piuttosto che lasciarsi schiacciare solo dalle richieste del pubblico. E questo è successo, in parte, anche alla musica indie: molti dischi di successo sono solo il risultato delle richieste del pubblico. Addirittura molti artisti, o presunti tali, invece di lanciarle le mode, sono stati sopraffatti, si sono messi in fila. Invece io credo anche nell’arte e nelle canzoni che disturbano, che fondono un linguaggio, che sono, soprattutto, libere dalle pose sociali, che sanno attraversare il tempo».

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