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CRISTIANO GODANO «Londra, William Shakespeare e un po' di cose sui Marlene Kuntz»

Non ne facciamo un mistero: intervistare Cristiano Godano ci piace davvero un sacco. Perché è uno che sa andare oltre le “classiche risposte” e non usa filtri o copia-e-incolla quando si tratta di esprimere un concetto o prendere posizione. Gli abbiamo lanciato una piccola sfida: parlare soprattutto di Londra, prendendo come pretesto (ma neppure tanto) l’imminente live dei Marlene Kuntz in terra inglese l’8 dicembre.

Iniziamo. Ricordi il tuo primissimo viaggio a Londra? 

«I miei ricordi sono legati innanzitutto all’area dove risiedeva mia cugina (Hampstead), piuttosto lontani dall’immagine di metropoli cui Londra ovviamente si associa, coi suoi lievi saliscendi e il respiro delle aperture sui molti scorci messi in scena dalle vie ariose».

C’è un particolare angolo di Londra che ti fa sentire a casa oppure che, in ogni circostanza, riesce ad affascinarti come fosse la prima volta?

«Regent’s Park e Hyde Park, ma soprattutto per il fatto che mi affascinano come se…, non tanto perché mi fanno sentire a casa (ovviamente)».

Nella vostra carriera avete spesso incrociato la strada con produttori inglesi, penso ad Howie B o a Rob Ellis. Cos’hanno portato all’interno dell’immaginario dei Marlene Kuntz? Mi spiego: hanno soltanto suggerito una strada oppure hanno contribuito in maniera più o meno importante a dare ulteriore maturità al suono della band?

«Con Rob Ellis facemmo anche un tour (nel senso che lui fu nostro ospite alle tastiere) e lo scambio di stimoli fu enorme: in tal senso conservo di lui un ricordo fantastico, come di un uomo dalla vivacità culturale enorme e dal sense of humor scoppiettante (parlando di un inglese pare quasi scontato). Con Howie c’è stata, oltre la produzione di un nostro disco, una parentesi con il progetto Beautiful, estremamente divertente e, musicalmente, curiosa e a tratti nuova e intrigante. Il suono della band, a mio avviso, non è stato particolarmente influenzato dalla loro presenza, ma ha potuto arricchirsi, in quei frangenti collaborativi, di elementi che ci mancavano e/ma che poi non necessariamente abbiamo mantenuto nel nostro sound».

Londra per i Marlene Kuntz significa anche Skin e la collaborazione che ha portato a “La canzone che scrivo per te”. Ora Skin sta raccogliendo successo nel ruolo di giurata a “X-Factor”. Tu che opinione hai dei Talent? Cristiano Godano sarebbe un buon giurato?

«Non me ne frega nulla dei talent, nel senso della sovrana indifferenza con cui ci convivo. Che esistano non mi turba più di tanto, e non capisco bene coloro dell’underground, e non solo, che si “arrabbiano” per la loro presenza: quando gruppi come i Marlene provano a cambiare lo stato delle cose italico andando a farsi una comparsata promozionale a Sanremo (ci fossero alternative le percorreremmo, ma non ci sono) li contestano, e a me questo fa pensare che non si vogliano cambiamenti in televisione (italiana). E allora che la televisione (italiana) continui per la sua strada con il beneplacito dei malmostosi dell’underground. Non credo che sarei un buon giurato: mi manca del tutto la componente pop (parlo della mia attitudine) che serve per essere, anche, personaggio televisivo. E a quei programmi serve sicuramente questa componente “spettacolosa”».

Restiamo a Skin e a Londra. In una recente intervista hai detto che “…anni fa, una sera, ci ha coinvolto in una nottata londinese che ancora adesso ricordiamo”. Che serata è stata?

«Una serata di forte e giocosa complicità, culminata nel divertente locale gay dove finimmo».

Se pensiamo a Londra, ci vengono in mente David Bowie, i Sex Pistols, Johnny Rotten, i Clash, i Queen. Ma potremmo andare avanti per ore. A te quali artisti vengono in mente e quali sono stati fonte di ispirazione?

«Sono talmente più americano nei gusti musicali che si contano sulle dita di una mano i miei “grandi” gruppi inglesi, e se non erro ce n’è solo uno (i Killing Joke) proveniente da Londra».

A Londra c’è l’Old Vic, storico teatro che negli anni ha messo in scena i drammi di Shakespeare ed è stato diretto artisticamente dal celebre attore statunitense Kevin Spacey. Voglio chiederti se Shakespeare è un autore che ha mai destato il tuo interesse e voglio anche chiederti – legandolo a Spacey e alla sua “House of Cards” – se le serie tv suscitano in te curiosità.

«Assolutamente sì: un genio impressionante. A ogni sua lettura che a uno capiti di fare, Shakespeare regala brividi e compiacimenti pazzeschi, perché hai la sensazione di una completezza ineguagliabile: una sorta di intelligenza cosmica, onnicomprensiva. Purtroppo non sono uno che segue le serie tv: e dico purtroppo perché è IL nuovo linguaggio e ho l’impressione di perdermi qualcosa di importante. Ma amen».

A chi a Londra dovesse chiederti informazioni sulla scena rock italiana contemporanea, cosa potresti rispondere?

«Che c’è una certa vivacità e che molte band suonicchiano bene anche dal vivo. Ma che l’attitudine dell’underground è troppo connotata da ingredienti negativi, tipo l’invidia e la “rosicanza”, per generalizzare, e che dunque manca la compattezza necessaria a far maturare una cultura alternativa più diffusa e in grado di attenuare la forte presenza di elementi mediterranei, folklorismi, cantautorismi, tarante e balcanismi vari».

Prima ho citato i Queen. Tu sei nato il 21 novembre del 1966 e lo stesso giorno, ma del 1975, loro davano alle stampe quello che è considerato il più famoso album dei Queen, “A Night at the Opera”, con canzoni del calibro di “Bohemian Rhapsody” e “Love of My Life”. In realtà è tutto un pretesto per farti gli auguri ma anche per chiederti qualcosa di non banale sull’amore. E’ un sentimento che fa scrivere meglio un artista?

«Soprattutto quando muore e ti fa star male, ma siccome questo è un discreto cliché, ho cercato nella seconda parte della mia carriera di fare ottime canzoni nelle quali la gioia del sentimento vissuto e goduto è descritto con ottimismo e adesione totale, tipo “Musa” e “Canzone sensuale”, per fare i primi due esempi che mi vengono in mente».

Il nuovo disco dei Marlene Kuntz pare essere a buon punto. Ha già una sua personalità ben definita?

«E’ un disco tosto, di sole chitarre (se ne fanno pochi in questo periodo storico e non hanno certo l’appeal delle cose più fighette del momento – trovo molto curioso l’interessamento dell’underground per tutto un certo tipo di approcci, tra funk e soul e elettronica edulcorata e quant’altro, che non molto tempo fa sarebbe stata una vera e propria bestemmia per qualsiasi alternativo – ma ci è andata così, con enorme gratificazione)».

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