IntervisteItalianoRapper

EN?GMA «Non ci sono amici veri in questo ambiente, salvo rarissimi casi»

Non è un mistero: En?gma è tra i rapper che più amiamo in ambito italiano. Due anni fa la prima intervista che inaugurò il nostro sito fu proprio la sua, ed era il periodo in cui la Machete Crew stava sulla bocca di tutti. Il 14 ottobre è uscito “Indaco“, il suo secondo album solista distribuito da Artist First. Un disco importante, perché rappresenta anche la nuova vita discografica di En?gma che non fa più parte dell’etichetta Machete, della quale è stato anche co-fondatore.

Partiamo da lontano. Nel 2014 la tua intervista fu la prima a comparire sul nostro sito. In due anni abbiamo capito che il rap italiano è pieno di cliché e talvolta fare il personaggio aiuta più che fare buoni pezzi. Tu hai scoperto qualcosa sul rap italiano in questi due anni?

«Il personaggio, ahimè, conta molto come avete ben notato. E’ pieno di talenti che però non hanno quella “marcia in più” sotto quel punto di vista, e ne rimangono penalizzati: è lì che lo showbiz o il jet set avvelenano la musica. Però va bene, è un aspetto del nostro mestiere col quale dobbiamo avere anche a che fare. Io più che scoprire qualcosa di nuovo, confermo ciò che ho sempre più o meno detto, ossia che non ci sono amici veri in questo ambiente, salvo rarissimi casi, al contrario di ciò che si vuole far credere. Quando le luci si spegneranno, o si sposteranno altrove, ci faremo quattro risate parlando di “amicizia”».

“Indaco” è un disco con una scaletta molto orecchiabile. Come hai lavorato sulle melodie e – visto che tu li hai fatti – come si fa un buon pezzo rap senza scivolare nel pop?

«Una formula non c’è; ciò che è certo è che si può. Si possono lavorare dei ritornelli melodicamente interessanti senza “sputtanarli”, lì entra in gioco il saper essere realmente eclettici e poliedrici, oltre che la coscienza artistica di ognuno».

Mi ha colpito molto la scelta – in netta controtendenza – di mandare alle stampe un album che non arriva neppure ai 40 minuti di ascolto. Per l’esigenza di mantenere alta l’attenzione dell’ascoltatore? Per non allungare troppo il brodo come fanno molti tuoi colleghi?

«Ho ritenuto opportuno fare così in quanto ritengo che il mio stile possa ben sposarsi con un ascolto non lungo; a qualche orecchio posso risultare “difficile” o “pesante” contenutisticamente, ma credo comunque che la maggiore musicalità di quest’album (tornando appunto alla domanda precedente) dia un’ulteriore mano ad “addolcire la pillola”».

Perché un artista che già si è messo alle spalle certi passaggi e può contare su una struttura solida, a un certo punto dice: “Ok, io provo a ricominciare da capo?”. C’è gente che venderebbe la madre per bruciare le tappe, e tu invece, lasciando Machete, hai quasi scelto di esordire di nuovo sul mercato, caricandoti sulle spalle il peso di mille dettagli (promozione, produzione, ecc.) che di solito sono i novizi a sostenere. Perché tutto questo, Marcello?

«Perché semplicemente andare a letto con la coscienza a posto e svegliarsi la mattina guardandosi allo specchio col rispetto di se stessi, dei propri valori, dei propri ideali conta a mio avviso più di qualunque posizione».

Prova a fare un bilancio di questi anni. Il rap ti ha dato tantissimo, ma cosa ti ha tolto?

«Mi ha tolto il terminare un percorso da universitario per il quale potevo essere tagliato, e per il quale sono stati fatti sacrifici in passato, non solo da me, anzi. Mi ha tolto certi rapporti umani, dandomene degli altri, spesso non troppo limpidi e puri. Mi ha tolto lucidità, perché certe evoluzioni della propria vita arrivano come un tornado che, specie a una certa giovane età, puoi non saper gestire al meglio. Mi ha anche tolto l’amore, e un futuro lavorativo che perché no, poteva non essere per forza peggio di questo. Detto ciò, sono tutte vecchie “sliding doors”, ma il futuro ne riserva delle altre certamente».

A Genova, prima di un tuo live, qualche anno fa mi colpì moltissimo il tuo atteggiamento da “anti-rapper”. Ricordo che cenavi tranquillamente a due passi dai ragazzi che stavano all’ingresso del locale, quasi fossi uno di loro. Hai sempre rifiutato il divismo generato dal fare il rap. Per inclinazione naturale? Per paura di essere preso troppo sul serio dai ragazzi? Per timore di diventare un punto di riferimento?

«Inclinazione naturale certamente, il resto direi di no. Non ho paura di diventare un punto di riferimento, come non ho paura di essere preso sul serio. Semmai ho paura di non essere capito a pieno ma questa è un’altra storia. Credo che un artista debba, per quanto possibile, mantenersi radicato ad una certa dimensione di “normalità” per non perdere per strada l’essenza umana che l’ha portato a diventare un artista».

A proposito di “punti di riferimento”. Se oggi un adolescente non crede nei rapper che segue, in chi dovrebbe credere? La politica offre pochi esempi, le ideologie sono crollate. Forse la scuola può essere un “punto di riferimento”? Tu consiglieresti a un ragazzino di credere nei rapper?

«No, consiglierei di leggere, di guardare a ritroso ai personaggi storici e alla storia stessa, nelle varie culture, di “spizzicare” parecchio nel buffet dell’informazione ormai a portata di tutti e, con coscienziosità, di farsi delle idee proprie».

In un’intervista hai detto che alcuni pezzi di “Indaco” farebbero un figurone a Sanremo. Lo penso anch’io. Il Festival si è aperto tantissimo al rap nell’ultimo decennio. E’ un palco che ha guadagnato credibilità (magari rispetto ai Talent)? Oppure lo poni sullo stesso piano di un “X-Factor” qualunque?

«Mi sbilancio, e non sono solito farlo: con “Prendi Me” andavo sul podio a Sanremo, perché è un brano che per una serie di fattori caratteristici a mio avviso avrebbe fatto bella figura. Detto questo, forse per blasone ma non solo, ritengo Sanremo ancora un punto di riferimento per gli italiani in qualche modo; un po’ lo dimostra il fatto che chi esce dai Talent fa come step successivo quello di andare al Festival appunto».

Fra i tanti messaggi ricevuti dopo l’uscita del disco, ce n’è uno in particolare – di fans, amici o nemici – che ti ha colpito? 

«Mi fa sempre molto piacere che uno come Emis Killa mi scriva “l’in bocca al lupo” quando esce un disco (successe anche per “Foga”), questo nonostante non ci si conosca tanto, anzi. Però è sintomatico del fatto che esistano anche delle persone vere dietro dei grandi numeri, e lui a pelle lo considero uno dalla genuinità esemplare, rispetto ad altri che ho avuto modo di osservare da vicino grazie alle mie esperienze».

Visto che sognavi di fare il giornalista (sportivo), prima di fare il rapper, c’è una domanda intelligente che in questi mesi non è stata ancora fatta a En?gma?

«Francamente – sorride – non mi viene in mente nulla, siete stati “completi” ed interessanti».

Pulsante per tornare all'inizio