FELPA «In questo disco ho voluto fissare la paura, per non dimenticarla»
Felpa è Daniele Carretti, una carriera negli Offlaga Disco Pax e anche un bel percorso cantautorale che va dritto per la sua strada. “Paura” (Audioglobe/Sussidiaria) è il suo secondo lavoro dopo “Abbandono” del 2013.
Nel tuo nuovo disco condensi molta inquietudine, sembra quasi un diario personale. La cosa che colpisce è anche la timidezza con cui canti gran parte delle canzoni. Com’è nato l’album?
«L’album è nato come un seguito all’abbandono del primo disco. La paura che si prova dopo, il senso di solitudine e di sentirsi persi. La voce, come ogni altro strumento all’interno del disco, è al servizio dell’arrangiamento e delle sensazioni che scaturiscono da quello che voglio mettere in musica, quindi risente per forza di tutto quello che il disco è. Ho messo tutto quello che volevo metterci parlando di paura, che chiaramente non è la paura del buio o di altre cose che popolano le notti di noi bambini, e credo di aver affrontato, per quanto mi riguarda, il tema come volevo affrontarlo e mi serviva affrontarlo. Chiaramente la paura è un argomento molto vasto e ognuno di noi ha una sua visione e un rapporto con essa, quindi non per forza sarà per tutti completo».
Può essere definito un “disco terapeutico” visto che ci sono pochissimi filtri e visto che hai messo molto del tuo privato?
«Certo, ho voluto fissare la paura, come avevo fatto per l’abbandono, in modo da potermi ricordare di quello che ho provato, per non dimenticare e per tornarci di tanto in tanto e vedere cosa è cambiato. Del resto difficilmente riuscirei a scrivere di cose che non ho vissuto o che non ho visto succedere vicino o intorno a me».
Chi ha ispirato il tuo percorso artistico in senso generale?
«Sicuramente gli Slowdive, Red House Painters e Cocteau Twins hanno indirizzato una mia visione più cupa e personale per creare e ricostruire atmosfere con la musica, poi Paul Weller e in Italia gli Scisma su tutti».
La canzone d’autore esercita sulla tua musica un certo fascino. Chi sono, secondo te, oggi, i cantautori che stanno portando qualcosa di nuovo alla tradizione italiana?
«Credo che la canzone d’autore in un certo modo sia stata molto importante per me, ma da un certo punto in avanti, visto che il cantato in italiano è sempre stato per me, con alti e bassi, spesso difficile da digerire. Cantautori come De Gregori prima, o cantanti come Giuni Russo e la prima Donatella Rettore poi, mi hanno aiutato a creare un percorso attraverso la musica italiana e quindi ad aprirmi pian piano a vari ascolti arrivando ai Bluvertigo, agli Scisma ai Lula. Oggi per molti aspetti faccio ancora molta fatica ad approcciarmi a un certo cantato in italiano ma riconosco, a prescindere che mi piacciano o meno, in artisti quali Colapesce o i Thegiornalisti quella voglia di fondere il passato con sonorità e idee più contemporanee o interessanti rispetto ad altri che sembrano troppo fotocopie di cose già sentite sia per sonorità che per approccio alla scrittura».
Detto che viviamo tempi dove l’aver paura è uno stato d’animo diffuso, per cosa vale la pena lottare, Daniele?
«Credo che da sempre la cosa più importante per cui lottare sia la libertà, cosa che non credo siamo mai riusciti ad avere, e quindi, dalla mancanza di questa, la paura è purtroppo sempre attuale e difficilmente trascurabile».
Non so bene se siano limiti o meno, ma la “scena” nel nostro Paese è fatta dalle stesse persone che si alternano sopra e sotto al palco, salvo casi eccezionali di maggiore pubblico o visibilità
Negli ultimi anni hai frequentato piuttosto bene la scena indipendente italiana. Quali sono i suoi limiti più evidenti?
«Non so bene se siano limiti o meno, ma la “scena” nel nostro Paese è fatta dalle stesse persone che si alternano sopra e sotto al palco, salvo casi eccezionali di maggiore pubblico o visibilità. Diciamo che in alcuni casi il vero limite sta in antagonismi, prese di posizione o gruppi chiusi che snobbano il resto del creato, si dimostrano essere le solite guerre tra poveri in una situazione musicale italiana che negli ultimi anni sta diventando sempre più complicata e difficile».
Ho letto in giro la storia del tuo nome d’arte e mi ha fatto molto sorridere l’immagine del “merchandise già pronto”. E’ tutto vero? Puoi raccontarcela un’altra volta…
«Quando ho iniziato a scrivere le prime cose in italiano erano più che altro cose che scrivevo e registravo per me, senza nessun tipo di interesse verso l’esterno, assecondavo un bisogno importantissimo, al pari del respirare o del mangiare, che era il suonare, cosa per me fondamentale e necessaria. Quando alcune cose che ho registrato sono uscite dalla mia “cameretta” e ho riscontrato qualche interesse esterno ho pensato a quale potesse essere un nome che riuscisse a riassumere quello che volevo esprimere con le mie canzoni ed è uscito Felpa. In primo luogo è un indumento che si indossa, cioè almeno per me, per stare comodi e senza costrizioni, nelle giornate invernali, e in secondo luogo è il nome di una ditta di indumenti sportivi e per la casa che aveva mio zio e che si chiamava appunto “Felpa”. A casa avevo (e ho) un qualche capo di campionario che mi era stato dato da mia nonna con scritto a lettere cubitali “FELPA”, e avere già il “merch” pronto l’ho trovata una cosa interessante…».
Per chiudere voglio chiederti anche degli Offlaga Disco Pax: esistono ancora, immagini possibile, un futuro dopo la scomparsa di Enrico Fontanelli? Con Max Collini, l’altro leader del progetto, avete mai parlato di riprendere il percorso?
«Personalmente non immagino nessun tipo di futuro per gli Offlaga senza Enrico, eravamo tre entità che hanno creato quello che gli Offlaga sono diventati. Che poi ci possa essere altro con Max quello spero si possa concretizzare, ma non saranno gli Offlaga».