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CAPPADONIA «Sono alla costante ricerca del miglior me stesso»

Un disco dal sound potente, che orbita intorno a chitarra e batteria, e che rivendica la propria profonda libertà creativa. E’ questo “Corpo Minore” di Cappadonia. Per il chitarrista/cantautore che in questi anni ha collaborato con vari esponenti del rock indipendente italiano, un ulteriore passo avanti.

Questo secondo album conferma la tua capacità di flirtare con il pop restando aggrappato al rock e alla canzone d’autore. Senti in questi anni di aver maturato un tuo stile o pensi di essere ancora alla ricerca di un’identità?

cappadonia corpo minore«Credo di aver maturato un mio stile ben preciso, me ne accorgo perché chi si appassiona alla mia musica ne coglie subito il senso, i riferimenti e gli obiettivi. Questa è una cosa che, quando accade mi riempie di gioia. So cosa voglio trasmettere a livello musicale e a livello estetico. Invece potrei dire che sono alla ricerca perpetua di un miglioramento nella composizione, nella produzione. Conosco la mia identità, ma cerco sempre di portarla un passo avanti. Diciamo che sono alla ricerca del miglior me stesso».

“Io no” è forse l’unico brano del disco ad apparire fortemente autobiografico. E’ così? Perché hai scelto di metterlo in apertura e com’è nato?

«Direi di si, è un brano autobiografico. Ho deciso di metterlo in apertura per diversi motivi. Non nascondo di amare particolarmente questo brano, credo sia un grande pezzo. Keith Richards dice che le grandi canzoni, quando sono davvero grandi, devono prenderti, colpirti, folgorarti e trascinarti dentro nei primi 3 secondi. Con “Io No” credo di essere riuscito per la prima volta in questo piccolo obiettivo che mi ero prefissato, o meglio, prefissato da Keith».

Cosa ti soddisfa del pezzo?

«Oltre a esserne soddisfatto a livello lirico e compositivo, credo che “Io No” sia prodotta davvero bene. Ho curato l’intero riff portante in maniera maniacale. Sembra di ascoltare una chitarra ma in realtà ce ne sono 4. Anche Emanuele Alosi alla batteria ha colto perfettamente la crescita dinamica che volevo ottenere per il brano. Infine Nicola Manzan ha arrangiato e suonato una splendida parte di archi che rendono il brano ancora più epico. A chiudere il cerchio c’è anche il fatto che è stato il primo brano scritto per l’album. Quindi mi sembrava una buona idea aprire il compact con questi famosi 3 secondi».

Da una tua intervista: “Avevo voglia di creare una tipologia di album di cui sento la mancanza di questi tempi”. Puoi spiegare meglio questo concetto?

«Mi mancano quei dischi in grado di cambiare la vita di un ragazzino con un suono di chitarra, un riff, una canzone speciale. I dischi che fanno venir voglia di formare una band. I dischi che ti fanno sentire meno solo, che ti fanno rendere conto che, da qualche parte, esiste qualcuno come te, che sta dalla tua parte. I dischi che ti portano oltre lo schifo che purtroppo a volte si può avere intorno. Mi mancano i dischi con una profondità, scritti per cercare di lasciare un segno. Credo si sia persa un po’ di vista l’importanza di fare un disco o musica in generale. D’accordo, il non prendersi troppo sul serio, ma ormai tutto sembra fatto per gioco, scherzo o parodia. Il palco per me è sacro e tutte le volte che ho la fortuna di salirci vorrei dare al pubblico qualcosa che manca nella vita di tutti i giorni. Questa concezione credo sia un po’ svanita negli ultimi anni in Italia e non so alla lunga quanto potrà funzionare ancora per chi ascolta. Quindi ho sentito la necessità di fare un disco rock, non vincolato ai tempi attuali, perché una cosa troppo legata al “momento” diventa vecchia molto presto, invece un grande disco rock resta per sempre nuovo. Magari mi sbaglio, ma il rock’n’roll oggi più che mai è trasgressivo, nuovo, coraggioso e diverso».

Nella nostra recensione abbiamo scritto che al Festival di Sanremo non sfigureresti con alcune canzoni di questo album. Ti sei mai immaginato su quel palcoscenico? 

«Credo che tutti i musicisti italiani in un modo o nell’altro si siano immaginati almeno una volta su quel palco. Mi piacerebbe andarci. E’ un megafono enorme, e sarebbe una buona occasione per non lasciare quel megafono sempre alle stesse persone. Credo sia sempre un bene dare visibilità a realtà diverse e non restare ghettizzati. Lo hanno capito in molti e infatti tantissimi grandi artisti, che stimo, negli anni hanno partecipato alla manifestazione».

Meglio Sanremo o un Talent?

«Io direi Sanremo senza ombra di dubbio. I Talent, nella forma attuale, hanno totalmente deformato il concetto di musicista nell’immaginario comune. Vedere quelle file sterminate di ragazzini in attesa di quella che dovrebbe essere la loro occasione di fronte a dei “giudici” è una cosa che mi intristisce in maniera angosciante. Poi stando ai numeri, molti Talent esistono da più di 10 anni. Contandone anche solo due l’anno negli ultimi dieci anni dovrebbero essere nate venti superstar. Io ricordo invece solo due o forse tre nomi venuti fuori seriamente. Ricordiamo anche che principalmente stai lì a farti assegnare cover da un mentore che neanche ti scegli. E’ una cosa che io non farei mai, ma questa è la mia opinione. Sanremo ha una storia diversa, porti la tua canzone e la fai ascoltare al più ampio numero di persone possibile, e in Italia in quella settimana sembrano diventare tutti esperti di musica. In 5 giorni è tutto finito, la gara non conta, non ha mai contato. Hai semplicemente usato un enorme megafono».

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