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ZEN CIRCUS «Il pop non è una categoria negativa, è una cosa orrenda se suona tarocco»

La terza guerra mondiale” è il disco al quale la band ha dedicato più tempo in studio, lavorando su ogni piccolo dettaglio, dalle melodie ai testi, dagli arrangiamenti ai suoni. Il risultato? A nostro avviso, notevole. Con Ufo (basso e voce del gruppo) siamo andati alla scoperta di quello che oggi sono gli Zen Circus, guardando anche al passato e accendendo i riflettori su Pisa, città matrigna.

Gli esperimenti attorno al pop continuano anche nel nuovo disco. Quali sono i paletti che vi siete dati nel maneggiare l’orecchiabilità? 

«Beh, sostanzialmente il perimetro è quello che ci siamo dati da sempre. Ci proponiamo di fare canzoni con una struttura melodica e ritmica ben delineate, senza parti “epiche” o pretestuosamente “sperimentali”, prediligendo la sintesi. Se ci fai caso, tutti i nostri dischi fin dagli esordi hanno queste caratteristiche, in fondo sono tutti orecchiabili a modo loro».

Dare del “pop” alla vostra musica vi offende?

«Il pop in sé non è una categoria negativa, è una cosa orrenda se suona tarocco o falsamente sentimentale, o se è fatto senza gusto magari seguendo i dettami di qualcuno. Nel nostro caso, pensiamo al pop come ai lavori di The Knack, Weezer, Creedence Clearwater Revival, per dire tre nomi a caso di epoche diverse. Erano tutti gruppi “popular”, mica roba d’avanguardia o di nicchia, però, c’era il tiro!».

In “Pisa merda” parlate della vostra città. Che rapporto avete con la vostra terra e in che misura vi ispira Pisa?

«E’ una cosa profonda e importante, non ci siamo mai trovati al nostro posto al 100% nella nostra città natale (come del resto la maggior parte dei ragazzi di provincia), eppure crescere lì è stato un vero romanzo di formazione, irrinunciabile. A Pisa c’è un modo di vedere, di fare, non fare, strafare che è molto tipico e ti segna anche se ci vieni già da grande a studiare. Ci teniamo. Penso che ce la porteremo dietro per sempre, la “pisanità”, come dice appunto anche la canzone. Che comunque parte dalla “scusa” di parlare di Pisa per svolgere un discorso sull’essere provinciali ieri, oggi e domani».

Scoppiasse per davvero la terza guerra mondiale, voi da che parte vi schierereste?

«Bella domanda! Io personalmente credo che starei con quelli con cui solidarizzo meglio, gli ultimi. Di certo ci sarà un giorno, perché ci sarà, nel quale bisognerà darsi una mano un po’ fra tutti, e allora mi toglierò qualche soddisfazione».

Dagli inizi a oggi quanto è cambiata la scena indipendente italiana?

«Ci vorrebbe un’intervista dedicata solo a questo aspetto. Noi siamo ormai grandicelli, e per usare un’espressione a me cara, “ne abbiamo visti correre di cavalli”. Tanti erano zoppi già ai blocchi di partenza, alcuni erano dei veri purosangue ma li hanno presi per stanchezza finché non hanno mollato. Fuor di metafora, ci sono stati tanti corsi e ricorsi, accavallarsi di tante “scene”, e molte sorprese; il dato più saliente è stato secondo me lo spostamento delle zone di origine dei progetti dalle solite città maggiori, che la facevano da padrone negli Anni ’90, a zone più periferiche e inaspettate. Un altro cambiamento – in meglio – è un clima oggi decisamente più collaborativo e rilassato fra i musicisti: sono finiti i tempi delle primedonne o del gruppetto che non ti rivolge la parola perché ha venduto 100 copie in più di te. In ultimo c’è l’innegabile, e direi macroscopico, impatto dei nuovi canali di comunicazione via web e il progressivo calo nei costi che attualmente si devono sostenere per creare un progetto musicale decente. Se prima per registrare un demo bisognava impazzire dallo sbattimento (con la quasi assoluta certezza di ottenere un prodotto grossolano), oggi i ragazzi hanno a disposizione un’infinità di opzioni».

Mi dite la vostra sulla presenza di Manuel Agnelli a “X-Factor”? 

«Manuel è una persona poliedrica e di provata esperienza, ci abbiamo collaborato e ti posso assicurare che non è certo un improvvisato. Sa quel che fa, sa quel che vuole, e se ha scelto quel ruolo è padronissimo di farlo. Noi non abbiamo titolo per valutare la bontà o meno di questa situazione, capiamo con difficoltà il linguaggio televisivo e questa idea della musica come “sogno da realizzare”, soprattutto se in competizione con gli altri. Ecco, è proprio l’aspetto competitivo che mi lascia perplesso».

Voi sareste dei buoni giudici?

«Saremmo dei giudici piuttosto inutili».

Rispetto agli esordi, ora è più difficile rintracciare le band dalle quali traete ispirazione. Vi siete definitivamente emancipati dai miti dell’adolescenza o siete semplicemente diventati più scaltri? Insomma, subite ancora il fascino di qualche gruppo in particolare?

«Semplicemente abbiamo allargato la cerchia delle influenze! Per questo specifico lavoro a me vengono in mente (non in ordine di importanza): Ween, The Thermals, The Breeders, Blur, Cochi e Renato, Ghigo Agosti, Talking Heads, Wire, Wilson Pickett, Fausto Leali. O forse siamo solo confusi».

Inizia a esserci quasi una generazione tra voi e una fetta del vostro pubblico. Visti dal palco, i ragazzi di oggi vi sembrano diversi o uguali rispetto ai ragazzi che siete stati voi?

«Diversi per forza, né meglio né peggio, ma diversi questo sì».

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