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ANDREA CHIMENTI «Siamo noi delle generazioni precedenti ad aver consegnato ai giovani un pacchetto vuoto»

Finora, quella di Andrea Chimenti, è stata una carriera lunghissima e piena di balzi da un’arte all’altra: musica, poesia, scrittura, l’esperienza coi Moda. Un continuo girovagare attorno alla parola “artista” alla ricerca di novità, progetti, scintille, idee. Ma il percorso di Chimenti è stato anche un continuo cercarsi, ritrovarsi e perdersi. Il nuovo album “Yuri” (Soffici Dischi/Santeria/Audioglobe) è uscito ad un anno di distanza dall’omonimo romanzo edito dalla casa editrice Zona.

Partiamo dalla musica: tu hai visto e vissuto diverse stagioni della musica in Italia. Che fase è, quella attuale? 

«Credo che la musica stia vivendo un momento di passaggio dettato non solo da un forte smarrimento culturale, ma anche da una realtà tecnologica in divenire. Internet ha cambiato il modo di fruire la musica e gli artisti si trovano a navigare in questa nuova realtà che per molti aspetti è destabilizzante. In passato esistevano dei filtri che nel bene o nel male operavano una scelta che in seconda battuta giungeva al pubblico. Oggi Internet ha creato una realtà del tutto diversa, non solo dando la possibilità di fruire della musica gratuitamente, ma anche abituando l’orecchio ad ascoltare ad una bassa qualità».

Internet ha rivoluzionato tutto…

«La cosa davvero nuova è che grazie alla tecnologia tutti possono creare musica e crearsi uno spazio in rete per divulgarla. Questo processo ha un alto valore democratico ed è assolutamente da preservare, ma allo stesso tempo crea un grande cataclisma mediatico, direi un immenso rumore di fondo dove tutti sono musicisti, cantanti, ma anche fotografi, registi, poeti, giornalisti, critici, ecc. E’ facile immaginare che questo non sia possibile e quindi l’ascoltatore si trova a navigare in un grande caos dove scovare ciò che vale la pena di sentire, leggere, vedere diventa difficile. Credo, a dispetto di tutta questa libertà, che un autore oggi abbia maggiore difficoltà a farsi notare. Tutto questo, che sembra avere a che fare unicamente con un discorso di marketing, in realtà influenza anche l’aspetto artistico».

Che piega prenderà il futuro?

«Sono fiducioso che le cose raggiungeranno prima o poi una nuova stabilità».

I Moda sono stati una realtà importante in quegli anni e hanno costruito, insieme ad altri gruppi del periodo, una fetta della nostra storia musicale. Voglio bene a quegli anni che sono riusciti a dare quello che dovevano. Non ho nessun rimpianto

Tu sei un cantautore. Quali sono, oggi, i cantautori che stanno dando ulteriore slancio alla tradizionale scuola italiana? Insomma, in chi ti rivedi?

«Credo che il mondo cantautorale stia tornando ad avere una voce nel nostro Paese. Ha avuto bisogno di tempo per smantellare tradizioni che con il passare degli anni apparivano consumate. Molto più che in altri Paesi, il nostro ha sempre dato molta importanza alla parola cantata ed era inevitabile che ritornasse viva la figura del cantautore. Alessandro Fiori, Marco Parente, Paolo Benvegnù, Dente, Alessandro Grazian, Cesare Basile, Giuseppe Righini sono solo i primi che ora mi vengono in mente, ma la lista è lunga e magari ora non mi vengono in mente nomi importanti».

In passato ti sei spesso confrontato con la poesia, in particolar modo con quella di Ungaretti. I poeti di oggi sono i rapper?

«Il rapper è un poeta che cavalca il fulmine, la velocità e il ritmo di questa esistenza. In questo il loro valore e la loro efficacia. Ma la poesia vive anche di tempi e onde più lunghe che sono quelle capaci di andare maggiormente in profondità. In ogni caso non esistono regole, l’importante è riconoscere il grande potere della parola, capace di attuare profonde trasformazioni».

Nel giro di 20 anni si è passato dai Moda ai Modà. Giochi di parole a parte, che ricordi conservi di quell’esperienza artistica? Hai nostalgie particolari ripensandoci?

«Nessuna nostalgia, il passato è qualcosa che costruisce il presente e quest’ultimo è l’unica cosa che mi interessa. I Moda sono stati una realtà importante in quegli anni e hanno costruito, insieme ad altri gruppi del periodo, una fetta della nostra storia musicale. Voglio bene a quegli anni che sono riusciti a dare quello che dovevano. Non ho nessun rimpianto».

Non hai voglia di reunion?

«Non ho proposto nessuna reunion. Non so, mi sembrerebbe di ripassare sul medesimo solco, è una strada già percorsa che non presenta nessuna sorpresa, solo quella del tempo che è passato».

Con l’uscita del disco, pensi concluso il percorso di “Yuri”?

«Non so se il percorso Yuri sia concluso. Quell’adolescente dai capelli rossi mi ha aperto una porta. Cosa ci sia al di là non lo so, ma so che devo entrarci. Sono estremamente istintivo nelle cose e so che quando si varca una soglia, dall’altra parte c’è sempre stupore».

Piero Pelù, che conosci bene, oggi è impegnatissimo come giudice di un talent show. Ti chiedo un’opinione sui talent.

«Inutile dire che non amo i talent show, hanno a che fare più con la spettacolarizzazione che con lo spettacolo. E’ un modo di fare televisione oggi e di usare la musica. Del resto è il linguaggio mediatico con cui si trattano tutte le cose, che si parli di guerre, cronache, meteo o sport».

Qual è il ruolo dell’artista oggi: intrattenere, regalare un attimo di svago da questi tempi bui, oppure raccontarli col rischio di cadere nel banale?

«Il ruolo dell’artista è sempre stato quello di raccontare il proprio tempo. L’artista è una sorta di cronista consapevole o inconsapevole. Si sa che la banalità è un rischio, ma appartiene alla sfera delle apparenze. Se si è autentici la banalità non esiste. Anche lo svago appartiene alla sfera dell’arte. Saper dare sollievo o addirittura riuscire a divertire è qualcosa di estremamente difficile e in pochi riescono a farlo con intelligenza».

I giovani del 2015 li vedi uguali o diversi, migliori o peggiori rispetto a quelli della tua generazione?

«Né migliori né peggiori, solo più smarriti, ma la colpa non è loro. Siamo noi delle generazioni precedenti ad aver consegnato loro un pacchetto vuoto. La mia adolescenza era costellata di sogni che pensavamo assolutamente realizzabili. Il sogno è l’anima di un progetto e noi potevamo farli perché tutto sembrava realizzabile, c’era fiducia nel futuro. Oggi è diverso, il futuro è nebuloso e il giovane avverte questa instabilità, è disilluso. Non vorrei essere giovane oggi».

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