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FLACO PUNX «Il rap? Ascolto dei testi fluidi, musicali, ma alla fine non mi resta molto»

Flaco, passo indietro: partiamo dalla rottura coi Punkreas. All’epoca non è stata indolore. Oggi se pensi a quell’esperienza che sensazioni, emozioni hai? Ti addossi delle colpe particolari?

«Sul piano personale e degli affetti è stata un’esperienza molto dura. La mia colpa, se così si può dire, è stata quella di aver sottovalutato i segni di una scollatura che non pensavo essere così profonda. Da parte loro, gli altri Punkreas mi hanno rifiutato ogni confronto, limitandosi a comunicare una decisione già presa in separata sede. Nel mio codice etico questa possibilità non è prevista, ma evidentemente non condividiamo gli stessi valori. Sul piano artistico, invece, è stata una liberazione: non ne potevo più di restare ibernato in slogan logori e nell’inerziale ripetizione del passato».

Hanno fatto discutere le tue posizioni a favore di Trump e pro riforme. La politica sembra essere un tema che ancora ti appassionata al contrario della maggior parte dei giovani di oggi. Pensi che l’impegno politico sia un valore?

«Non sono mai stato a favore di Trump, inteso come politico. Piuttosto, ho pensato che la sua elezione potesse aprire le porte ad una politica europea più autonoma. Purtroppo sono stato seccamente smentito. La riforma costituzionale – che invece realmente appoggiavo in quanto tale – è stata bocciata e questo per me è il segno che anche in Europa ormai prevalgono logiche conservative. Trump, Brexit e referendum costituzionale per me appartengono alla stessa logica, al di là delle apparenze. La politica mi appassiona enormemente, ma al momento non ho la minima idea di dove collocare un impegno politico dotato di senso e prospettiva».

Negli Anni Settanta/Ottanta la protesta era espressa attraverso il punk-rock, oggi è il rap il nuovo mezzo per veicolare la rabbia?

«In realtà conosco decisamente meglio gli Anni ’90, quelli della grande stagione dei Centri Sociali. Allora la protesta aveva non solo dei codici culturali ancora credibili, ma soprattutto dei luoghi dove agirli collettivamente. Mi piace molto il rap e il suo uso della voce, i miei figli si preoccupano di tenermi aggiornato. Ma mi sembra che il rap soffra di una rappresentazione molto autoreferenziale e si rivolga spesso ad una comunità virtuale di consumatori di social e tv. Ascolto dei testi molto musicali, molto fluidi, con un sacco di brillanti giochi di parole. Ma alla fine non mi resta molto».

Quando hai iniziato tu coi Punkreas c’era ancora VideoMusic ed era un punto d’arrivo. Oggi l’obiettivo di tanti esordienti sono i Talent. E’ uno strumento che il Flaco adolescente avrebbe voluto avere e che avrebbe usato?

«Oddio, no! E’ proprio quello che contestavamo. La musica (il cinema, l’arte in generale) come intrattenimento. Che tristezza! Nell’intrattenimento riposa la consapevolezza nascosta che le cose non vanno, che il tempo passa, che bisogna morire. La paura per questa oscura consapevolezza genera il contrario da sé. Il futile, l’innocuo, la bella fotografia, il bel canto, gli effetti speciali, il gossip. E’ tutta una grande patetica macchina per dimenticare».

Se l’America è sempre il male (dal punto di vista economico e bellico), la Cina oggi cos’è?

«Che l’America sia il male ho smesso di pensarlo da un bel po’ di tempo. Quel giudizio ingeneroso era il semplice effetto ideologico della guerra fredda e del fascino esercitato dalla rivoluzione sovietica. Di fatto, oggi che l’America attraversa una fase di crisi, anziché festeggiare sembra che ce la facciamo sotto. Durante le elezioni, c’erano più clintoniani in Europa che in USA. La Cina è il futuro, ma è anche un passato ingombrante: non riesco a immaginarmi una egemonia culturale, un soft power basato sugli ideogrammi. In compenso mi immagino facilmente uno strapotere economico, soprattutto se – come pare – l’integrazione europea andrà in fumo».

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